“La cittadinanza – Amicizia sociale”

lunedì 6 febbraio 18.00-19.30

Il tema di questo incontro è: “La cittadinanza – Amicizia sociale”. Il paragrafo 220
dell’“Evangeli Gaudium” ci ricorda: In ogni nazione, gli abitanti sviluppano la
dimensione sociale della loro vita configurandosi come cittadini responsabili in seno ad
un popolo, non come massa trascinata dalle forze dominanti. Ricordiamo che «l’essere
fedele cittadino è una virtù e la partecipazione alla vita politica è un’obbligazione
morale» 1 . Ma diventare un popolo è qualcosa di più, e richiede un costante processo nel
quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. E’ un lavoro lento e arduo che esige di
volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una
pluriforme armonia.

   Relazione di Raffaella Carenza. La “cittadinanza” è uno status giuridico, vale a
dire la condizione giuridica di chi appartiene alla comunità Stato. Chi si qualifica, nei
confronti di uno Stato, come suo cittadino, viene ad assumere posizioni giuridiche attive
(cui corrispondono diritti) e passive (che comportano doveri). Solo chi è cittadino, ad
esempio, può partecipare alle elezioni politiche dello stato o ricoprire determinate
cariche pubbliche. Naturalmente dai tempi della polis greca ai giorni nostri il termine ha
subito una profonda trasformazione e una continua serie di arricchimenti, conoscendo
con la Rivoluzione francese il frangente di maggior mutamento ed estensione. Un
elemento che caratterizza i tempi antichi quanto quelli attuali, però, è, come all’idea di
cittadinanza faccia sempre da contraltare quella di esclusione. Il cittadino, infatti, è
soggetto agli obblighi imposti dallo Stato ma, al contempo, gode del diritto di
partecipare al processo decisionale delle scelte politiche, tramite la rappresentanza, e di
prendere parte alla gestione delle risorse del Paese. Ciò significa che tutti coloro che non
vengono considerati cittadini non sono oggetto né di obblighi né di diritti da parte
dell’entità statale, o peggio ancora hanno dei precisi doveri verso lo Stato ma non dei
diritti. Il concetto di cittadinanza risale già al mondo greco e romano (il termine deriva
del resto dalle parole latine civis e civitas) e indicava la relazione tra un individuo e il
governo della città. La polis è il primo modello, non solo in ordine cronologico, ma è un
punto di riferimento che tutt’oggi è tenuto presente per la immaginazione della città del
futuro. Che caratteristiche ha la polis greca, questo modello che secondo alcuni potrebbe
essere ancora oggi riproposto? La polis greca è una città destinata ad accogliere persone
che hanno la stessa origine. Cioè che condividono lo stesso “ghenos”. Potremmo
tradurre questo termine greco dicendo che appartengono alla stessa “stirpe”. La polis
quindi si fonda sulla comunanza di un “ethos”, potremmo chiamarlo di una moralità, di
un costume, di un’inclinazione comune. Essa si fonda sulla condivisione della stessa
radice. Ciò che caratterizza questo primo modello di città è dunque l’origine comune. Ma
questo modo di concepire la città porta a delle inevitabili conseguenze. Una città così
concepita, cioè caratterizzata dalla comunanza dell’origine, è una città che non cresce,
non si allarga ma si limita a riprodursi proprio per non allontanarsi dalla comunanza
dell’origine. Una città così concepita deve per necessità rinchiudersi dentro i propri
confini per salvaguardare la propria identità. Ogni apertura nei confronti dell’altro
rischia di contaminare la purezza di quel “ghenos” di quella “stirpe” che è il principio di
individuazione della città. Da questo punto di vista la città greca non può che essere
separata e distinta rispetto ad altre città e non può che accentuare questo aspetto di
separatezza rispetto ad altre città. Una città così costituita ha, a suo fondamento, non la
legge, ma la stirpe. Nell’eventuale dissidio tra l’appartenenza alla stirpe e il rispetto della
legge, a prevalere, è la prima. Una città costruita solo sulla base dell’origine comune,
sarà sempre alle prese con la prospettiva della guerra. Ne abbiamo due conferme, una di
carattere storico, l’altra di carattere linguistico. Le città greche sono perennemente in
guerra l’una contro l’altra. Se leggiamo i testi che si riferiscono al periodo di maggior
benessere economico delle poleis greche noi troviamo che ciò che prevale anche dal
punto di vista dell’ordinamento della città in pace, è il riferimento alla guerra. La città
stessa, la sua organizzazione, l’educazione dei cittadini è sempre tutta in funzione delle
esigenze della guerra. Nettamente distinto rispetto al modello della polis greca è il
modello della civitas romana. La civitas romana è fondata, costituita ed alimentata da
persone che appartengono a culture differenti le quali scelgono di assoggettarsi
all’imperio della stessa legge. Noi potremmo dire che i cittadini romani non sono uniti
dalle stesse origini, cioè quelle del “ghenos”, ma dallo stesso fine. La civitas romana è il
confluire di diversi “cives” che sono tra di loro differenti per religione, cultura, etnia e che
si danno tuttavia le stesse leggi e che vivono quindi nella pax che è assicurata dalla
concordia romana. Questo ideale della concordia che ritroviamo nella tradizione
successiva come in Sant’Ambrogio e Sant’Agostino. Questo modello di città, inclusiva e
non esclusiva, accomunata dal fine piuttosto che dall’origine, è una città sempre mobile,
dinamica. La politica in tutte le epoche ha delle costanti che emergono soprattutto nei
momenti di forte crisi. Tale può essere considerato il nostro, se pensiamo ai numerosi
fronti di guerra aperti attualmente nel mondo. S. Agostino di crisi se ne intendeva,
avendo vissuto l’epoca in cui l’Impero romano subiva le forti spallate dei popoli che,
dapprima avevano premuto sui suoi confini e, successivamente, vi avevano fatto
devastante irruzione. Agostino ha condotto una lunga riflessione sulla politica che si
intrecciava costantemente con la riflessione sulla natura umana. Egli individua due tipi di
politici: uno motivato da ideali, preoccupato di proporre e realizzare programmi, lontano
dal desiderio di raggiungere interessi privati; l’altro tipo invece completamente opposto.
Ciò che secondo S. Agostino li differenzia è il diverso amore che li anima. Da un lato c’è
l’amore puro, volto al servire il bene comune in vista della città celeste. Al contrario, abbiamo l’amore impuro pronto a subordinare anche il bene comune al proprio potere,
in vista di una dominazione arrogante. I due amori individuano in realtà due diverse
città: la città celeste o “città di Dio” e la “città terrena”. Entrambe sono città, ma ben
diversi sono i vincoli che caratterizzano i loro cittadini. Solo la prima, in realtà, è una vera
città, perché solo nella prima si vive l’amore sociale; l’amore privato invece che
caratterizza la seconda, non risponde ai requisiti di un legame di cittadinanza. Per S.
Agostino sono coloro che vivono l’amore sociale a tenere in piedi la realtà politica. E’
l’amore sociale a mandare avanti i partiti, i ministeri…in una parola, a mandare avanti le
istituzioni politiche. Diverso è il pensiero di Tommaso Campanella, il quale descrive
quella che in realtà, vorrebbe come città da vivere. Lui immagina una società felice che
non conosce conflitti interni, corruzione, invidie, tradimenti, è la “Città del Sole“ il suo
esempio di organizzazione politico-sociale perfetto. La città viene immaginata formata
da sette cerchi concentrici di mura fortificate. Si trova su di un colle, in cima al quale c’è
il tempio del sole. Il capo supremo della città è un re-sacerdote, chiamato Sole. Questi ha
dei sottoposti: il Potestà, una specie di ministro della guerra; il Sapienza, che ha cura di
tutte le scienze e amministra la vita intellettuale; l’Amore, che governa la riproduzione,
l’educazione e la medicina. In questa città il potere religioso e quello politico sono uniti. Il
sole, infatti, è sia sovrano politico sia “sommo sacerdote”.

Secondo Campanella, la sapienza e la filosofia sono un antidoto contro la crudeltà e la tirannia, inoltre
l’abolizione della proprietà privata è necessaria poiché è causa di conflitti, dolori, gelosie
e di tutti i mali sociali. La “ Città del Sole “ è solo utopia, è un luogo inesistente dove
fondamentali devono essere i valori della giustizia e della equità. A questa forma di
società si oppone la visione di Giuseppe Lazzati. Giuseppe Lazzati, è stato uno tra i
maggiori esponenti dell’impegno politico cristiano in Italia.
Non si definì mai un filosofo, un teologo o un intellettuale impegnato, si giudicava, modestamente, un fedele cristiano
laico, che nella vita di ogni giorno riflette e opera come tale e in quanto tale; le sue
riflessioni scaturivano da una consapevolezza del ruolo che il cristiano avrebbe dovuto
assolvere come membro della “città terrena”. La sua ricerca fu condotta non in modo
astratto e concettuale ma innanzitutto come esperienza personale, sperimentata in
prima persona nella propria vita, intesa come vocazione, intesa come impegno a
realizzare ciò che Dio chiede ad ogni essere umano: fare la sua volontà. Secondo Lazzati
il fine della politica è il “bene comune” dei cittadini; pertanto, la politica viene vista sia
“come costruzione della città dell'uomo” che come “ la più alta attività umana: quella
che dovrebbe realizzare quel bene comune che è da intendere quale condizione per il
massimo sviluppo possibile di ogni persona. Ritiene inoltre che, la politica abbia il difficile
compito di analizzare campi diversi che riguardano la persona umana in tutti i suoi
aspetti, per cui ogni problema va risolto secondo la tecnica propria di quel problema, ma
naturalmente dentro la visione globale d’insieme. Secondo Lazzati il termine “costruire”
“esprime un’azione, un’attività” ciò vuol dire che, per una politica intesa come scienza e
arte della costruzione e gestione della “città dell’uomo a misura dell’uomo”, è
indispensabile un chiaro progetto politico che impedisce alla più alta delle azioni umane
di cadere in uno sterile pragmatismo, perché priva di una prospettiva ideologica. In
questa ottica per lui era chiaro che i costruttori erano, sono e saranno non certo i politici
di professione, ma i cittadini tutti, con in cima ai loro interessi l’ideale del bene comune.
Non c’è dunque spazio per nessun decisionismo, per nessun autoritarismo, per nessun
partitismo. La Repubblica è veramente la cosa di tutti e nessuno deve sentirsi autorizzato
a non prendervi parte. La politica non è affatto il potere o l’arte di governare, ma è
essenzialmente la costruzione comune della casa di tutti. Solo così l’uomo si realizza in
pienezza e la politica ritrova la sua originaria destinazione.

  Relazione di Stefania Labbruzzo. Dopo la prima sintesi di Raffaella sui concetti di
città e cittadinanza e di Città del Sole e Città di Dio, vorrei proporre una seconda
riflessione sul tema della responsabilità di ciascuno di noi nelle nostre città. Formare
cittadini responsabili, o ancor meglio consapevoli e attivi, è la sfida che, soprattutto negli
ultimi anni, le scuole di ogni ordine e grado cercano di affrontare proponendo
insegnamenti mirati e continui che permettano agli studenti di apprendere e acquisire i
concetti basilari e i valori fondamentali posti a fondamento degli ordinamenti di cui
siamo parte. La cittadinanza responsabile è dunque un compito affidato a tutti, ma è
soprattutto un dovere fondamentale dei cristiani. Non possiamo essere cristiani e
ignorare la collettività che ci circonda. San Paolo è chiaro già nelle sue prime lettere
quando consiglia alle neonate comunità: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità
costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da
Dio. Quindi, chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio.” Gesù è ancor
più incisivo quando raccomanda: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare.” È evidente,
dunque, che il rapporto tra i cristiani e la città, la società, lo stato, la comunità deve
meritare un impegno profuso e duraturo. Viviamo nelle città e viviamo di relazioni
sociali, per questo è importante il nostro contributo e la nostra partecipazione attiva,
democratica, consapevole e solidale. Papa Francesco in un suo scritto intitolato “Dio vive
in città” afferma che essere popolo e costruire città vanno di pari passo. Papa Paolo VI in
”Octogesima Adveniens” scrive che costruire oggi la città è un compito al quale i cristiani
devono partecipare. Una consegna non così semplice se analizziamo la molteplicità di
forme che caratterizzano le nostre città e la frenesia con la quale le stesse si trasformano
giorno dopo giorno. I cambiamenti sono innumerevoli, le realtà si susseguono in modo
rapido senza lasciarci il tempo di assimilare e gestire le novità o di ripensare e far nostre
le situazioni già superate. Come possiamo creare contatti e relazioni in questo continuo
divenire? Chi si farebbe carico della responsabilità dell’avvenimento collettivo? La
risposta per questi interrogativi non è può essere una definizione preconfezionata. Ma
una cosa è certa, ciascuno di noi, e i cristiani in primo luogo, dovrebbero correre in prima
linea per rispondere con voce squillante all’appello. Sì ci sono, eccomi! Mi assumo questa
responsabilità, voglio provarci! La complessità della città è una sfida, ma rappresenta
anche una grande opportunità per la vita di ciascuno di noi. Persone che si spostano,
cambiano le proprie abitudini, sradicano la loro esistenza da un luogo e le reindirizzano verso posti diversi. È questa parte della complessità a cui facciamo riferimento. I migranti, come scrive Papa Francesco, sono una sfida per la Chiesa senza frontiere e madre di tutti. I concetti di confine e limite sono sempre e più obsoleti nelle nostre
società caratterizzate da approcci globali. L’identità di ciascun individuo è il vero
concetto rilevante e il valore che più dovrebbe emergere. E Papa Francesco continua
sottolineando l’importanza di una apertura generosa, che non tema la creazione di
nuove sintesi culturali e che sappia superare la sfiducia e la diffidenza a favore di una
reale integrazione. Come invita il Deuteronomio: “Amate dunque lo straniero”. E come
dice Gesù stesso: “Ero straniero e mi avete accolto”. Non è facile superare i nostri
egoismi e le nostre paure, ma è necessario. È il nostro essere fratelli in Cristo che ci fa
figli della Madre Chiesa, unica realtà inscindibile in Cristo Gesù. Concludo, citando le
parole del Prof Prenna: “una città plurale, in cui si saldino identità e diversità, libertà
individuali ed esigenze razionali, non può nascere dalla sommatoria di individui e di
interessi, ma dalla fatica di comporre e costruire l’appartenenza urbana come popolo,
unità morale ispirata a un’etica condivisa che, dal legittimo confronto delle differenza,
punti a sviluppare la prossimità di valori comuni”.

Civitas è parola che significa sia città sia cittadinanza. In relazione al modello di
città si configura la cittadinanza fino ad arrivare alla città moderna e plurale. La
cittadinanza è anche necessariamente esclusiva di quelli che non risiedono in quella
città. Le città antiche, infatti, hanno le mura che non permettevano allo straniero di
accedere. La città è una città chiusa in sé e preoccupata di difendersi. I due criteri alla
base della cittadinanza sono lo ius sanguinis, appartenenza alla stessa stirpe, e lo ius
soli, appartenenza allo stesso territorio. La cittadinanza è l’insieme di diritti e doveri che
nascono dall’appartenenza a una stirpe e dalla residenza su un territorio.

Il popolo si costruisce come realtà comune, che richiede la fatica di tutti. Si
costituisce così una comunità, parola che richiama il termine latino munus, munera, cioè
dono e compito, in quanto luogo dove si portano doni e dove si assumono i propri
impegni. Si appartiene al popolo perché si è portato il dono di sé e si è assunto
l’impegno di costruire la comunità insieme con gli altri. Le persone di qualsiasi
provenienza, che costruiscono una comunità, hanno titolo a cittadinanza, in quanto tale
titolo scaturisce dalla partecipazione alla vita in tale comunità. La comunità ha leggi,
statuti, religioni ed è plurale poiché il profilo culturale è necessariamente interculturale.
Titolo alla cittadinanza non perché appartengo ma perché partecipo. L’immunità è il
contrario della comunità, si riferisce a chi non assume impegni e non porta doni. La
politica è la capacità di organizzare e governare. La politica è arte di costruire e di
governare attraverso il potere, cioè l’avere la possibilità, avere i mezzi, non è demoniaco
ma è necessario. L’inizio dell’alterazione è fare dei mezzi un fine. Questo genera la
concezione negativa del potere. L’arte della politica (la più nobile e la più fragile) indica l’esercizio abituale di una competenza, di una professione. Tutti quelli che hanno mestieri potrebbero essere definiti artisti.

Papa Francesco aggiunge dei concetti interessanti. Per diventare cittadini non
basta appartenere a una società se questa non diventa una comunità, ci deve essere la
partecipazione e se l’abitante è colui che vive in città senza relazioni, il cittadino è colui
che sviluppa tali relazioni. Dalla cittadinanza nasce la vocazione politica che genera il
dovere di contribuire al governo della città. Come però esercitare tale cittadinanza? La
società non è ancora un popolo ma è un processo, un’integrazione lenta e faticosa. Non
c’è identità senza appartenenza. Egli parla di periferia umana o esistenziale. Periferia dal
greco e dal latino che vuol dire perimetro, indica la parte marginale di una città; il verbo
latino perifero è un verbo attivo che significa mettere ai margini e confinare,
marginalizzare, non è un confine ma un confinamento. Non è una condizione naturale
ma è una condizione in cui uno è stato messo da una serie di fattori. Si indica una
condizione di emarginazione. L’unzione con l’olio di Aronne scende dalla sua barba sino
all’orlo delle sue vesti, analogamente l’unzione giunge sino ai confini dell’universo, dal
centro alla periferia più estrema, come l’olio non si limita alla sua persona, così l’unzione
è per tutti, coloro che sono al centro e per poveri, prigionieri, malati, tristi, soli ed
emarginati. La chiesa è chiamata a decentrarsi e a periferizzarsi, ecco perché la chiesa è
in uscita. L’invito è quello di arrivare alle situazioni limite, di raggiungere il popolo.

L’insieme dei vincoli che costituiscono la cittadinanza, che è comunitaria, che è
espressa dal popolo, l’insieme di tali vincoli costituisce l’amicizia sociale. La cittadinanza
di un popolo è amicizia sociale. L’amicizia sociale è la cittadinanza popolare. Vincoli e
relazioni che costituiscono la cittadinanza si possono chiamare amicizia sociale, cioè una
trama di relazioni. Accogliere tutti, non è una accoglienza a fondo perduto. È una
accoglienza che porta lavoro e che porta benefici per la società. Integrazione vuol dire
entrare nella totalità di una realtà. Non è assimilazione, non è melting pot. Integrazione
significa mantenere la propria identità. La democrazia partecipativa è importante,
significa essere parte e diventare tutto in quanto parte. Se partecipo e collaboro allo
spirito della legge, sono più disposto a rispettarla. La democrazia partecipativa è una
forma più compiuta della democrazia rappresentativa. Rosmini dice che una delle
cinque piaghe della chiesa è la separazione tra clero e popolo. Per Francesco, il
popolarismo è una categoria storica e teologica e non sociologica, è luogo della
rivelazione di Dio e anche cattedra di magistero. I poveri sono il luogo privilegiato della
rivelazione di Dio, nonché cattedra da cui noi dobbiamo apprendere.