Ogni dieci anni si celebra il convegno della Chiesa Cattolica Italiana e, recentemente, il monito di Papa Francesco è stato quello che ci ha esorati a “riprendere la vita della comunità come luogo di costruzione dell’amicizia sociale”; cioè, in altre parole, l’amicizia sociale si costruisce contestualmente alla vita della comunità o, ancora con parole diverse, è la comunità che crea amicizia sociale. Con questa premessa vediamo di capire che cosa Bergoglio intende per amicizia sociale: questa espressione la troviamo già in alcuni discorsi dell’arcivescovo Bergoglio, il quale, divenuto Papa Francesco, ha ripreso il suo pensiero e la formulazione linguistica e sintattica dello stesso, trascrivendola nei suoi documenti di papa, universalizzando e aprendo il suo pensiero alla chiesa universale. Amicizia sociale è un’espressione cara a Bergoglio e da lui usata più volte.
Per capire, dobbiamo tornare all’idea di popolo e di popolarismo. L’idea che Bergoglio ha del popolo presenta un’estrema mobilità semantica. Esso ha un ventaglio di accezioni che bisogna mettere insieme per coglierne completezza e intensità. Tra le varie definizioni c’è questa: popolo, più che una parola, è una chiamata, una con-vocazione a uscire dalla chiusura individualistica, dall’interesse personale, dal proprio laghetto privato per tuffarsi nell’ampio flusso di un fiume che avanza riunendo la vita e la storia del vasto territorio che attraversa e feconda. Popolo è questa vicenda comune che cresce sul territorio, con la dinamica stessa con cui il fiume procede nel suo letto e, avanzando, porta con sé e raccoglie ciò che trova: in questo caso, fuori dalla metafora, le vicende, le storie, le gioie e le speranze di ciascuno. Si passa dalla vita individuale alla vita comune. È una dinamica di uscita dalla dimensione individualistica. Ciascuno ha il proprio laghetto e pensa che sia l’universo delle acque, ma il fiume, nella sua impetuosità, descrive una dinamica di avanzamento e di confluenza. Il fiume prosegue placido verso la foce, verso la costruzione del popolo, per l’appunto.
Il territorio è il luogo in cui le vicende individuali creano vicinanza e spezzano l’egoismo, cioè la vita sul territorio di più soggetti rende inevitabilmente evidente la vicinanza con gli altri, spezzando l’egoismo. Lo spazio è il primo fattore di costruzione del popolo, lo spazio comune che condividiamo con gli altri.
Anche la storia, cioè il fattore temporale, il tempo che si fa storia, il passaggio di generazione in generazione. Il tempo che consuma le vicende individuali ma che le ritrova nella vicenda comune. Il tempo offre e “soffre” le vite individuali. Soffrire queste vicende che sono offerte alla vita della comunità è compito del tempo, il quale crea la storia di un popolo. Il passaggio generazionale vuol dire che il popolo cresce e che non è mai definito del tutto.
L’identità di un popolo è la sua cultura. In modo semplice, Papa Francesco, in una intervista a Domenico Agasso, giornalista della Stampa, definisce il popolarismo come “cultura del popolo”. Il termine cultura indica il modello di vita, il modo di pensare, le espressioni linguistiche, l’arte, l’universo di vita in cui il popol si muove. Ci possono essere studiosi che non hanno cultura e persone colte che non hanno studio. Quindi la cultura è una cosa diversa. La cultura è il modello di vita del popolo. In questa concezione di storia che si muove in uno spazio e attraversa le generazioni in un tempo definito, l’idea di popolo ci permette di acquisire un altro aspetto: il legame, il collegamento. La storia, proprio perché comune, inevitabilmente è una rete di più soggettività, anzi può essere un’identità pluriculturale, pur essendo dello stesso popolo. I vincoli sociali, i legami che caratterizzano l’identità di un popolo prendono il nome di amicizia sociale. Lo studio di san Tommaso d’Aquino, che parla della dilectio socialis (amore sociale), mi porta a pensare che il papa abbia preso da questa espressione la sua idea di amicizia sociale. I vincoli sociali si strutturano e consolidano come amicizia.
L’amicizia sociale è la dimensione politica dell’amore che “crea concorde comunione e la volontà di camminare insieme verso un destino comune”. L’amicizia sociale è un’intuizione cara che viene da lontano e che ha elaborato nel tempo. Possiamo aggiungere che il papa riprende l’accezione sociale di amicizia: la modernità ha confinato l’amicizia nell’intimità delle relazioni individuali. Nella tradizione greco-aristotelica l’amicizia è la modalità di stare insieme nella polis, è una relazione politica. Il papa sottrae il termine dal rischio di un’esclusione privatistica per farne una virtù sociale. Ecco che infine parla di carità politica. Pio XI (papa dell’Azione Cattolica), negli anni Venti, in un discorso alla FUCI (18 dicembre1927), indicando la dimensione pubblica dell’amore fraterno come la più alta forma di virtù, per primo ha formulata l’espressione “carità politica”. Pio XI afferma che tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutte le società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore. Quando papa Francesco usa questa espressione, la riferisce a Paolo VI, il quale ne usa una simile, ma non questa. Nel messaggio della giornata mondiale della pace del 2019, il papa riprende questo concetto e dice che la sua formulazione è riferita a Paolo VI, in realtà è simile l’espressione di papa Montini, ma non la stessa. Da tutto questo allora, è possibile passare al capitolo VI dell’enciclica “Fratelli tutti”.
Il capitolo VI ha come titolo “Dialogo e amicizia sociale”. Il contributo ulteriore è il rapporto tra il dialogo e l’amicizia sociale. Il dialogo non va concepito solo nell’accezione di Paolo VI in “Ecclesiam Suam”, la grande enciclica sul dialogo, ma anche nel modo in cui è presentato da Papa Francesco. All’inizio afferma che: (198) Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Il dialogo è proposto dal papa come strumento di costruzione dell’amicizia sociale. Il dialogo è il primo capitolo dell’amicizia sociale, la quale ha tanti altri capitoli da sviluppare. Ecco che: (203) L’autentico dialogo sociale presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, accettando la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi. A partire dalla sua identità, l’altro ha qualcosa da dare ed è auspicabile che approfondisca ed esponga la sua posizione perché il dibattito pubblico sia ancora più completo. Cogliere l’alterità è fondamentale.
L’altro termine che utilizza il papa è la parola consenso, termine logorato dalla vita politica, però, tornando al linguaggio di Papa Francesco, sappiamo che la testimonianza cristiana è finalizzata non al consenso, ma al dialogo. Consentire vuol dire sentire insieme la stessa cosa. L’utilizzo di questo termine dà al papa l’occasione per dire che, a furia di voler ottenere consenso, si finisce per relativizzare la verità. Dato che non si vuole spaventare l’atro, si cerca di sminuire ciò che si dice. La ricerca di consenso è un tranello nella strada di costruzione del dialogo e dell’amicizia sociale. Poi, l’amicizia sociale non è il risultato nel del consenso di uno, ma del consentire di tutto il popolo, che sente allo stesso modo, non perché convinto, ma perché ha attraversato quella storia e quel territorio e ha raggiunto la verità comune.
L’amicizia sociale non può non essere fondata sulla verità delle cose. La verità è la verità della vita, delle cose, degli oggetti. Il valore che ogni cosa ha in base al suo grado dell’essere, come dice Rosmini. Il libro è un libro perché è tale, non è un talismano. Ogni cosa ha un grado di essere. Io sono. Dio è. Il verbo è sempre essere ma il grado di essere tra me e Dio è diverso. Il mio essere è relativo, legato alla mia natura. L’essere di Dio è il grado assoluto di essere, il massimo con il quale l’essere stesso può essere concepito. Riconoscere il grado di essere in ciascuna cosa è la sua verità. Non attribuisco alle cose un grado di essere, ma esse lo hanno già, l’ordine dell’essere, la verità è distribuita a ogni cosa secondo il suo valore intrinseco. L’essere è predicato in modo proporzionale e analogico, secondo la proporzione della loro realtà. Il popolo ha una verità comune da condividere, non quella del singolo individuo. L’amicizia sociale ha la sua verità in quanto popolo; sottratta alla dimensione popolare perderebbe la densità del suo essere. La verità della comunità non è la somma delle verità individuali, ma l’insieme delle relazioni dei vari soggetti.
Allora: (208) Occorre esercitarsi a smascherare le varie modalità di manipolazione, deformazione e occultamento della verità negli ambiti pubblici e privati. Ciò che chiamiamo “verità” non è solo la comunicazione di fatti operata dal giornalismo. È anzitutto la ricerca dei fondamenti più solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre leggi. Questo implica accettare che l’intelligenza umana può andare oltre le convenienze del momento e cogliere alcune verità che non mutano, che erano verità prima di noi e lo saranno sempre. Indagando sulla natura umana, la ragione scopre valori che sono universali, perché da essa derivano. La verità universale che non cambia è “la verità dell’essere di ciascuno”, è “la verità irriducibile di ciò che ciascuno è”. La verità di ciascun soggetto è legata alla sua natura, si parla, allora, dell’oggettività del valore e non della sua soggettività. Paolo VI nell’enciclica sociale “Populorum Progressio” dice che l’uomo vale per quello che è e non per quello che ha. La verità è ciò che ciascuno è, coincide con il grado di essere di ciascuno, sempre in parte relativo, con relazione maggiore o minore. Anche in relazione con gli animali (anima sensitiva), con i fiori (anima vegetativa), tra noi stessi (anima razionale). Il consenso non coincide con la verità. Può essere ottenuto su varie cose, su una verosimiglianza con la realtà, su una riduzione della verità oggettiva.
Infine: (218) Questo implica la capacità abituale di riconoscere all’altro il diritto di essere sé stesso e di essere diverso. A partire da tale riconoscimento fattosi cultura, si rende possibile dar vita ad un patto sociale. Senza questo riconoscimento emergono modi sottili di far sì che l’altro perda ogni significato, che diventi irrilevante, che non gli si riconosca alcun valore nella società. Dietro al rifiuto di certe forme visibili di violenza, spesso si nasconde un’altra violenza più subdola: quella di coloro che disprezzano il diverso, soprattutto quando le sue rivendicazioni danneggiano in qualche modo i loro interessi. La partecipazione dell’essere secondo la gradualità propria di ciascuno crea la diversità. Io porto in me una verità, che coincide con me stesso, e chiedo all’altro che io sia riconosciuto per quello che sono. L’amicizia sociale non è l’uniformità dei soggetti ma la convivenza delle diversità, delle alterità, delle identità. Le identità si rapportano come alterità di relazione. La carità politica è amore e l’amicizia sociale è la dimensione politica dell’amore. Riprendendo un’immagine già evocata, Papa Francesco ama esprimere tutto ciò con la figura del poliedro: la figura che esprime questa pluralità non è la sfera che ha tutti i punti uguali, ma il poliedro che è una pluralità di facce.