“Globalizzazione economica e giustizia sociale”

giovedì 16 maggio 18.00-19.30

Per arrivare all’enciclica “Fratelli Tutti” e al capitolo indicato, partirei dall’analisi dei fenomeni che, più di altri, segnano questo periodo, dicendo subito che, da anni, questo periodo è una fase di transizione. Il che vuol dire passaggio da un periodo definito, che lasciamo alle spalle, a un altro da definire, che potremmo chiamare futuro. Da Lyotard si usa il termine post-moderno per dire che la modernità, che si sarebbe dovuta esaurire con la fine dell’Ottocento, è incapace di dare un nome al periodo successivo, ragion per cui si limita a usare il prefisso post-. È un periodo che verrà dopo, ma il carattere culturale di questo periodo non è definito. Il post-moderno non ha un nome, è una parola indicativa dell’incertezza delle culture stesse a definirsi, pur esistendo delle denominazioni soprattutto in ambito artistico. L’idea della transizione è fondamentale.

Esistono tre fenomeni che caratterizzano questo periodo: 1 la nascita della società dell’informazione, 2 lo sviluppo della società scientifica e tecnica (con il passaggio dalla tecnica alla tecnologia per mezzo dell’introduzione dell’elettricità), 3 la mondializzazione degli scambi (rapporti tra due soggetti individuali o collettivi che vanno oltre i confini localistici e raggiungono tutto il pianeta). Questi fenomeni sono ambivalenti perché comportano rischi e opportunità, sfidando gli organismi internazionali, politici ed economici. Emerge il deficit politico e l’inadeguatezza della politica a livello internazionale a governare. Si tratta sempre di processi “selvaggi”, che si sono sviluppati senza un controllo.

Papa Francesco, nell’enciclica “Laudato si’”, parla di un paradigma tecnocratico, che tende ad assumere il controllo di questi processi. La politica si è rivelata incapace di governarli, per cui sono entrati nell’egemonia tecnocratica. Si è instaurato un totalitarismo, non ideologico o politico, ma tecnologico, chiamato tecnocrazia. Jacques Maritain, in “Per una filosofia dell’educazione”, mette in rapporto tecnocrazia con democrazia, in un a relazione in cui la prima minaccia la seconda. La democrazia sono le decisioni del popolo per scegliere il proprio destino, la tecnocrazia, al contrario, è essa stessa a scegliere il destino per il popolo. Il paradigma tecnocratico è ripreso da Papa Francesco, affermando che la tecnologia rischia una deriva tecnocratica. La tecnocrazia è alleanza di tecnologia ed economia, sempre finalizzata al profitto. Una egemonizzazione della tecnocrazia amplificata, oggi, dall’arrivo della intelligenza artificiale. I papi parlano dell’era tecnologia come di un’opportunità, il problema è saper controllare e gestire tali fenomeni. Il messaggio di Papa Francesco per la giornata mondiale della pace, infatti, è stato intitolato: “Intelligenza artificiale e pace”, nella convinzione che, liberata da ogni ambizione tecnocratica, la tecnologia può rendere grandi servizi all’umanità.

La globalizzazione rientra nel processo generico di scambi. La globalizzazione è “l’estensione al mondo e al globo di un fenomeno originariamente di carattere locale”. La globalizzazione economica ha implicato che l’economia di mercato, tipica dell’Occidente e delle società capitaliste, tenda a estendersi a tutto pianeta, andando oltre i semplici meccanismi economici. Il rischio è passare dall’economia di mercato alla società di mercato: un paradigma che è solo dell’economia può estendersi a tutti i comportamenti sociali, costruendo la relazione sociale sullo scambio (do ut des), perdendo le dimensioni della gratuità e del dono. È forte anche il rischio dell’omologazione culturale: le culture, cioè i modi di pensare e di relazionarsi di un popolo, rischiano di omologarsi al pensiero unico (Latouche) e ai modi di rapportarsi ai prodotti, appiattendo l’unico grande mercato del mondo, ma soprattutto stemperando ed esautorando i caratteri propri di ciascuna cultura.

Sin dall’inizio di questo processo, non solo Papa Francesco, ma anche chi lo ha preceduto, tutti hanno accompagnato la globalizzazione economica con iniziative di solidarietà per garantire la giustizia sociale. Questa dilatazione dell’economia di mercato crea una forbice sempre più divaricata tra chi ha tanto e chi ha poco e questo si riproduce a livello mondiale. 5 milioni di poveri (10% del totale della popolazione) sono l’effetto di questa economia di mercato.

Notiamo come, paradossalmente, questo processo di globalizzazione abbia creato nuove insorgenze rivendicative di identità particolari. Chomsky parla di globalizzazione come processo boomerang: alla dilatazione mondiale dell’economia di mercato e di un paradigma comune, si va contrapponendo la rivendicazione di identità particolari, che tendono a marcare le differenze, culturali e religiose con prepotenza e violenza. Alcuni hanno parlato di ritorno alla tribù per descrivere il conflitto tra locale e globale. Gli studiosi parlano di “glocalismo”, per dire che è possibile coniugare il globale e il locale, l’universale e il particolare. Questo glocalismo ha poi portato alla nascita di vari movimenti politici a esso ispirati.

Papa Francesco, sin da quando era arcivescovo, aveva affrontato questo tema nell’elencazione delle tensioni che attraversano il mondo e l’umanità. Non parlava di conflitti ma di tensioni (ex. materiale, spirituale; grande, piccolo; globale, locale). Per il pontefice, la tensione indica sempre una bipolarità che deve risolversi non in una sintesi (Hegel: dialettica tra due poli, tesi e antitesi,  che vanno verso una sintesi) e non in un annullamento di uno dei poli nell’altro, ma deve risolversi in un piano superiore (rapporto verticale e non orizzontale) in cui, in qualche modo, restano attive le polarità dei due elementi entrati in tensione (Católicos y Politicos una Identidad en Tensión).

Il papa parla del processo migratorio nel paragrafo “Il limite delle frontiere”. Limes in latino vuol dire confine e soglia, confine che chiude e soglia che apre. La parola limite ha questa potenzialità semantica duplice. La parola frontiera è occlusiva e preclusiva dello spazio. Il papa dice che è necessario aprire le frontiere per favorire un fecondo interscambio tra i Paesi, che sia caratterizzato dalla gratuità che accoglie  e dall’accoglienza totalmente gratuita. E parla del rapporto tra universale e locale:

  1. Va ricordato che «tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante, […]; l’altro, che diventino un museo folkloristico di “eremiti” localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini.

Il papa si cita, riprendendo l’“Evangeli Gaudium” e dicendo che le teorie glocaliste sono una soluzione come ricorda lo slogan: “il rapporto tra locale e globale si risolve pensando globalmente e agendo localmente” (da cui l’espressione “pensare in grande”). Bisogna pensare alla complessità delle cose,  ma la partita si gioca a livello locale, non all’astrattismo globalistico, ma alla concretezza localistica.

  1. La soluzione non è un’apertura che rinuncia al proprio tesoro. Come non c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico.

Il dialogo non è cedere qualcosa della propria identità per far piacere agli altri e neppure rivendicare la propria identità per imporsi agli altri, cedere e rivendicare sono impropri. Affermare è un termine più neutro. Il dialogo muove da una identità che trova un’altra identità. Il popolo deve coltivare le sue radici, nelle quali trova la linfa per fiorire. Sono le radici identitarie che alimentano l’identità di una cultura. È necessario partire dalla propria identità non precludendola e neppure svendendola.

  1. Ci sono narcisismi localistici che non esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura. Nascondono uno spirito chiuso che, per una certa insicurezza e un certo timore verso l’altro, preferisce creare mura difensive per preservare sé stesso. Ma non è possibile essere locali in maniera sana senza una sincera e cordiale apertura all’universale, senza lasciarsi interpellare da ciò che succede altrove, senza lasciarsi arricchire da altre culture e senza solidarizzare con i drammi degli altri popoli.                                      
  2. Grazie all’interscambio regionale, a partire dal quale i Paesi più deboli si aprono al mondo intero, è possibile che l’universalità non dissolva le particolarità. Un’adeguata e autentica apertura al mondo presuppone la capacità di aprirsi al vicino, in una famiglia di nazioni. L’integrazione culturale, economica e politica con i popoli circostanti dovrebbe essere accompagnata da un processo educativo che promuova il valore dell’amore per il vicino, primo esercizio indispensabile per ottenere una sana integrazione universale.

Affermare che tra i due poli bisogna ricercare un livello superiore in cui le polarità vengano conservate, è molto difficile; è la complessa arte della mediazione a entrare in gioco, richiedendo una serie di capacità. Per Max Weber, la mediazione raggiunge il meglio del possibile, il che vuol dire perseguire l’impossibile. Per Pietro Scoppola, infine, la mediazione cerca la realizzazione del possibile e soffrire per l’impossibilità di realizzarla.