“La speranza cristiana per il futuro dei popoli”

martedì 3 giugno18.30-20.00

Don Antonio Rubino: Buonasera! Con la giornata odierna si conclude il III Corso di Formazione promosso dall’Ufficio Cultura della nostra Arcidiocesi, un corso avviato nel novembre 2024 sul tema “I cristiani nel mondo, pellegrini di speranza”. Il percorso formativo proposto, articolato in sette appuntamenti, si conclude con il presente Convegno, presieduto da S. E. Mons. Ciro Miniero, sul tema “La speranza cristiana, per il futuro dei popoli”. Desidero esprimere, per prima cosa, la mia gratitudine all’Arcivescovo per la paternità con cui ci ha accompagnato in questi ultimi due anni. Grazie Eccellenza. È con piacere che accogliamo questa sera il Presidente Nazionale delle Acli, Emiliano Manfredonia, e Lino Prenna, docente universitario che ha accompagnato il nostro percorso con grande professionalità. Vi propongo una breve sintesi dell’itinerario svolto, distribuito all’ingresso, dando la parola a Lorenzo Musmeci.

Lorenzo Musmeci: Buonasera! Il III Corso di Formazione, sul tema I cristiani nel mondo, pellegrini di speranza”, promosso dall’Ufficio Cultura della nostra arcidiocesi per l’anno pastorale 2024/2025, si è inserito nella dinamica delle attività diocesane in perfetta continuità con le tematiche sviluppate negli anni scorsi e, in particolare, con il I Corso, sul tema “Popolo di Dio e fraternità dei popoli: dal Concilio Vaticano II a Papa Francesco, e con il II Corso, sul tema L’umanesimo europeo per la fraternità dei popoli. Da novembre 2024 a giugno 2025, sette densi incontri di formazione ci hanno aiutato a vivere con maggiore consapevolezza il presente e a capire che – per usare due espressioni della costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen Gentium, redatta in seno al Concilio Ecumenico Vaticano II – “ogni laico deve essere davanti al mondo […] un segno del Dio vivo” (LG, 38) e che tutti i cristiani “sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo” (LG, 31). I temi sono stati sviluppati nell’orizzonte di speranza che ha illuminato i percorsi dell’Anno Giubilare e nella prospettiva di rinnovamento che ha caratterizzato l’intero magistero di Papa Francesco. 1. Il Corso ha chiarito il significato delle parole “popolarismo e popolo”, care a Papa Francesco. Il popolarismo è la cultura del popolo e il popolo è il compimento della storia, un destino comune, un percorso che attraversa il tempo e lo spazio e una forza intensa, che come un fiume in piena porta con sé alla foce tutto ciò che trova nel suo letto. È questo popolo pluriforme e poliedrico che è chiamato a mettersi in cammino, a essere dinamico, a edificare la Chiesa e a diventare pellegrino nella storia. È un popolo che deve “guardare avanti [e] prendere il largo” (NMI, 15) per raggiungere la meta ultima – come ricorda la lettera apostolica Novo Millennio Ineunte del sommo pontefice Giovanni Paolo II – meta ultima che non è altro se non il cuore stesso di Cristo Gesù, nostro Signore. 2. Per delucidare l’espressione “pellegrini di speranza”, abbiamo analizzato la formula latina “peregrinantes in spem”, il cui complemento di moto a luogo esplica la dinamica dello spirito verso la speranza, che deve essere continuamente alimentata. Le suggestioni teologiche della Lettera a Diogneto ci hanno permesso di chiarire il ruolo dei “cristiani nel mondo”,  concetto illustrato dalla frase ardita e suggestiva: “ciò che l’anima è nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo” (LD, VI, 1). Questi spunti iniziali ci hanno guidato sino all’analisi più puntuale del Giubileo della Speranza. Come affermato da Papa Francesco nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2025, in questo Giubileo, non è il corno di ariete che convoca i fedeli, ma è il “grido disperato di aiuto che […] si leva da più parti della terra” (GMP, 3, 1° gennaio 2025) che si rivolge all’intera umanità. 3. È stato interessante, allora, esaminare e attualizzare i tre grandi gesti che la tradizione ebraica era solita praticare durante il Giubileo: la remissione dei debiti, il riposo della terra e la liberazione degli schiavi. La remissione dei debiti è così descritta nel Levitico: “Quando uno dei vostri connazionali, caduto in miseria, non potrà tener fede ai suoi impegni nei vostri riguardi, voi dovete venirgli in aiuto, perché possa continuare a vivere al vostro fianco” (Lv 25, 35). Questo primo gesto non è una concessione, ma è un dono, che implica la cultura della gratuità e che si allontana da quella dello scambio. Papa Francesco insiste sul “debito ecologico”, che si aggiunge a quello internazionale e che richiede una nuova “architettura finanziaria”, capace di favorire non solo il condono e la remissione dei debiti, ma soprattutto l’armonia e la pace tra i popoli del mondo. 4. Il Giubileo è anche il momento per ricordare che “del Signore è la terra e quanto contiene” (Sal 24, 1). Dio dona agli uomini la terra, affinché essi la custodiscano e se ne prendano cura. Il riposo della terra è così presentato nel Levitico: “Il settimo anno sarà consacrato a me, sarà un anno di riposo completo per la terra: non dovrete seminare i vostri campi, né potare le vostre vigne” (Lv 25, 4). Questo secondo gesto è strettamente collegato al concetto di “conversione ecologica”, enunciato da Papa Francesco nella lettera enciclica Laudato Sì, che interpella ciascun cristiano a “vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio” (LS, 217), a proteggere la casa comune e a farsi carico della cura del pianeta. 5. La liberazione degli schiavi è l’ultimo aspetto del Giubileo della tradizione ebraica. In merito, così si esprime il Levitico: “Proclamerete la liberazione per tutti gli abitanti della vostra terra […]; in questa occasione, ciascuno di voi potrà rientrare in possesso delle sue terre e ritornare nella sua famiglia” (Lv 25, 10). Questo terzo e ultimo gesto riecheggia nelle parole finali di Papa Francesco nel Messaggio Urbi et Orbi della Domenica di Pasqua del 2025, il quale termina con l’invito a “liberare i prigionieri di guerra e quelli politici” (DP, 10, 20 aprile 2025). Papa Francesco è consapevole del rapporto tra i cristiani e il potere politico, tanto quanto lo sono i padri conciliari, i quali – nel redigere la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes – precisano che “è di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa” (GS, 76). Rapporti spiegati da Gesù stesso nel passo evangelico del Tributo a Cesare: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22, 21). 6. Abbiamo analizzato, infine, il ruolo della fraternità, intesa da Papa Francesco come “promessa mancata della modernità” (Lettera Humana Communitas, al presidente della Pontificia Accademia per la Vita, 2019) e come unica realtà in cui “il mondo avrà futuro” (Discorso ai Giovani, in occasione del Viaggio Apostolico nel Regno del Bahrein, 2022). Il concetto di fraternità, che è figlio della Rivoluzione Francese, è definito da Papa Francesco attraverso la parabola del Buon Samaritano: è la prossimità di chi “ha avuto compassione” (Lc 10,37); è la vicinanza di chi ha ospitato, accolto, assistito, curato; è l’amore nella sua forma più elevata. Ecco, allora, che la fraternità diventa indispensabile per costruire la democrazia, unendosi ai diritti di libertà e ai doveri di uguaglianza, ma andando oltre ed esercitando la solidarietà al fine di perseguire il bene comune. 7. Per riassumere, durante il Corso, è stato chiarito che il cammino dei cristiani nel mondo non può che proseguire nel solco della speranza, una speranza cristiana intesa come virtù teologale, come futuro dei popoli e personificata da Cristo, nostra speranza e speranza del mondo.

Don Antonio Rubino: Grazie Lorenzo per la breve sintesi, ma anche grazie per il lavoro di coordinamento che hai svolto insieme a Stefania e a Raffaella. Il tema che ci siamo proposti di approfondire in questo convegno conclusivo del III corso di formazione è la speranza cristiana per il futuro dei popoli. La speranza trasforma tutto ciò che tocca. Il suo effetto è descritto meravigliosamente dal profeta Isaia: “Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40,30-31). Dio non promette di togliere i motivi di stanchezza e di spossatezza, ma dà speranza. La situazione resta in sé quella che era, ma la speranza dà la forza di elevarsi al di sopra di essa. È davvero come un mettere le ali.

Passo la parola al prof. Lino Prenna, che è stato Ordinario di Filosofia dell’educazione, ma anche Presidente dei corsi di laurea in Scienze dell’educazione dell’Università di Perugia. Studioso di Pedagogia scolastica, ha elaborato una teoria dell’istruzione religiosa a scuola, esposta nel saggio Dio fece tre anelli. Le religioni a scuola (2016) e declinata in unità tematiche nel manuale Immagini dell’invisibile. Il linguaggio culturale della religione (2014). Tra le ultime pubblicazioni: Un nuovo umanesimo europeo. Popoli, religioni, culture (2020) e Dal cattolicesimo democratico al nuovo popolarismo. Sui sentieri di Francesco (2021). La società interiore ed Educare istruendo e tante altre pubblicazioni e articoli che sarebbe lungo elencare e per me difficile da individuare. Lino Prenna ci guiderà in una riflessione sul tema: “La speranza, virtù teologale”.

Prof. Lino Prenna: Devo alcuni ringraziamenti. Ringrazio don Antonio per la sua generosa presentazione del mio curriculum. Grazie a Sua Eccellenza, che ha accolto benevolmente l’iniziativa del corso e oggi è qui con noi. Ringrazio Emiliano Manfredonia, che ha fatto il possibile per essere presente. Grazie, infine, ai corsisti che con benevolenza hanno ascoltato, accolto e condiviso le mie riflessioni. Oggi cercherò di spiegare (cioè di togliere alcune pieghe) il grande tema della speranza. La speranza è una virtù teologale, perché ha per oggetto Dio. La letteratura filosofica e cristiana sviluppa le virtù cardinali, che costituiscono il cardine della vita sociale, meglio dette virtù naturali (della natura), e le distingue dalle virtù teologali, che riguardano Dio, anche note come virtù soprannaturali (della grazia). Le virtù naturali sono prudenza, giustizia, fortezza e temperanza (ben rappresentate nella Cattedrale di Castellaneta, dove quattro statue, raffiguranti le virtù cardinali, sormontano una balaustrata). Le virtù soprannaturali sono fede, speranza e carità. La virtù, il cui concetto nasce nella filosofia greca, è già oggetto della riflessione di Aristotele, il quale distingue le virtù della mente (dianoetiche) da quelle dell’animo (etiche), è la distinzione tra la capacità di pensare e quella di operare bene.

La virtù è habitus bonus operandi, cioè il vestito dell’anima per agire al meglio. La nostra natura ha la potenzialità di sviluppare i comportamenti virtuosi. Possiamo considerare come abitazione permanente nell’animo umano una tensione vitale che sfida il futuro e che cerca di essere oltre il tempo, per sfuggire all’agguato della morte. Questa tensione interiore, che coincide con la vita, è la speranza di durare, continuare, guardare al futuro. È una tensione vitale strutturale alla condizione dell’uomo, destinato ad attendere il futuro. Ma l’attesa del futuro è vista come un compimento del proprio essere. Noi nasciamo incompiuti e limitati e questo genera il desiderio di compimento. Nello stesso tempo, constatiamo l’esperienza del limite, che ci rende consapevoli dell’impossibilità di raggiungere la compiutezza con le forze stesse della natura. E il dolore per il proprio limite e per la fine, esito di ogni vita naturale, ci inchioda nella nostra natura. Dai Sepolcri di Foscolo si legge: Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve tutte cose l’oblio nella sua notte. L’essere umano è incapace di raggiungere la sua compiutezza.

La ragione illuminata dalla fede è la teologia, scienza che ha per oggetto Dio. La ragione umana è illuminata dalla fede e diventa una ermeneutica, o interpretazione, della fede. Nella scansione tradizionale della teologia, il capitolo finale si chiamava “escatologia”, parola derivante dal greco che vuol dire “fine”. È il trattato che sviluppava la riflessione sui cosiddetti novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. Dal latino “novus” che vuol dire “ultimo”, sono le realtà ultime della vita, descritte nel Catechismo di San Pio X. L’autore che voglio ricordare è Jürgen Moltmann, che proprio il 3 giugno dello scorso anno moriva, un grande teologo, che ha scritto i libri Teologia della speranza e Il Dio crocifisso. Per lui, l’escatologia intesa in modo tradizionale finiva per completare i trattati di teologia e rinviare anche il cristiano a pensare a quello che sarà dopo; la sua correzione, invece, prevede che la riflessione escatologica deve incalzare il presente, deve spingere a una quotidianità che sia già abitata dal futuro, avendo la capacità di inquietare il mio presente e di renderlo drammaticamente orientato verso le realtà ultime. L’escatologia non parla del futuro in generale, ma apre alla considerazione di quello che la fede ci porta a credere e che si verificherà alla fine dei tempi. È la fede nella Resurrezione del Cristo, nel Dio crocifisso che risorge. A misura di questa resurrezione sarà la nostra. Noi non crediamo ciò che è avvenuto ma aspettiamo ciò che deve compiersi. La Resurrezione è già avviata nella nostra esistenza.

Attraverso la lingua spagnola, è possibile ricordare che il verbo “esperar”, sperare, vuol dire anche aspettare e attendere. La speranza, allora, è attesa di Dio. Attesa di Dio, un genitivo oggettivo, che sembra far credere che siamo noi ad attendere Dio. È bello, invece, interpretarlo in senso soggettivo, per cui è Dio ad attenderci, noi speriamo che Dio ci attenda. Questa è la nostra speranza.

Don Antonio Rubino: Grazie di cuore Lino, le tue parole mi hanno ricordato quanto un poeta francese – Charles Péguy – ci ha lasciato in pagine stupende sulla speranza (Il portico del mistero della seconda virtù). Egli dice poeticamente che Dio non si stupisce tanto per la fede degli esseri umani, e nemmeno per la loro carità; ma ciò che veramente lo riempie di meraviglia e commozione è la speranza della gente: «Che quei poveri figli – scrive Charles Péguy – vedano come vanno le cose e che credano che andrà meglio domattina». L’immagine del poeta richiama i volti di tanta gente che è transitata per questo mondo – contadini, poveri operai, migranti in cerca di un futuro migliore, popoli straziati dalla guerra – gente che ha lottato tenacemente nonostante l’amarezza di un oggi difficile, colmo di tante prove ma tutti animati dalla fiducia che i figli avrebbero avuto una vita più giusta e più serena. Lottavano per i figli, lottavano nella speranza.

Segue l’intervento di Emiliano Manfredonia, Presidente Nazionale delle Acli. Emiliano Manfredonia è nato a Pisa, si è formato nel movimento studenti di Azione Cattolica, è stato per molti anni animatore ed educatore parrocchiale. Impegnato nella cooperazione sociale di inserimento lavorativo, nel tempo ha sviluppato e fondato cooperative sociali e attività lavorative in diversi territori e in diversi ambiti di marginalità, come tossicodipendenza, disabilità mentale e sordomutismo. Dal 2006 è Presidente dell’associazione Intesa, impegnata nei servizi, nella ricerca, qualità e studio del settore no profit. È stato Presidente delle Acli di Pisa dal 2006 al 2012, anno in cui è stato invitato in Presidenza Nazionale con l’incarico Economia Civile e cooperazione Sociale. Dal 2016 è stato Vicepresidente vicario delle Acli nazionali e Presidente del Patronato Acli e successivamente Presidente nazionale Acli. Autore del libro Vite in circolo che racconta il mondo dei Circoli delle Acli e delle persone che vi lavorano con impegno e dedizione. Emiliano Manfredonia ci guiderà in una riflessione sul tema: “La pace, speranza di futuro dei popoli”.

Emiliano Manfredonia: Grazie don Antonio. Grazie a Sua Eccellenza. E grazie a Lino Prenna. Grazie per questo invito. Oggi cercherò di parlare di pace. Ho capito che la guerra non è escatologica, non pensa al futuro. La pace ci richiama le tante parole di papa Francesco, ma anche quelle di papa Leone XIV: “La pace sia con voi, una pace disarmata, disarmante, umile e perseverante”. Sono quattro aggettivi che mi fanno ripensare a tutto quello che facciamo come associazione, rispetto al tema della pace. La pace perseverante è una paziente ricerca della verità, è onorare la memoria (come si fa con l’olocausto), è ricerca di giustizia ed è assenza della guerra. È necessario riconoscere nell’altro la promessa che porta con sé. Una pace così sembra utopica. Ma basta pensare all’Europa, con tutti i suoi difetti. Essa è nata dopo il secondo conflitto mondiale, tra paesi che si erano fatti a lungo la guerra, ed è nata grazie al carbone e all’acciaio, due beni essenziali, che si decide di condividere tutti insieme. Così la pace prende piede in Europa. L’Europa ha innescato un processo di condivisione tra i paesi, ha unito, ha generato un progetto comune.

Soprattutto in questi giorni, tutto questo va ripetuto, perché ancora ci sono germi di odio, ancora si creano distanze e differenze, con istinti egoistici e diffidenti. È un mondo in cui la carità non si accompagna alla compassione. È un tempo che crea scarti, come diceva papa Francesco, gli scarti hanno bisogno dell’altro per potersi affermare, ma spesso sono lasciati soli per strada. L’amicizia sociale è uccisa. Lo vediamo anche in politica, quella politica che crea un clima sterile. La guerra è un oggetto di discussione, spesso considerata una soluzione alle dispute internazionali. Torna l’antico motto romano: se vuoi la pace, prepara la guerra.   Noi dobbiamo fuggire dal disimpegno morale. Non si può dire che non tutte le vittime sono uguali. Non si può non far nulla, non si può colpevolizzare le vittime, non si può restare inermi, non si può disumanizzare l’altro. Ecco che, ripensando alla Fratelli Tutti di papa Francesco, ripenso a una domanda: “Cosa posso fare io?”. Cosa posso fare io, nella mia città, in parrocchia, in famiglia, ecc.? Questa domanda è la porta per la speranza. Allora, per cercare le condizioni di pace, non servono solo le grandi strategie internazionali, ma soprattutto artigiani di pace, uomini capaci di piccole azioni che portino la pace, che seminino la riconciliazione.

Vi porto qui una piccola storia di perdono, vissuta in udienza dal papa. Durante l’udienza era presente un uomo che ha visto uccidere suo fratello nella guerra tra Gaza e Israele (egli ha sentito il suo dolore come il dolore di un popolo intero) e un altro uomo che ha sofferto lo sterminio di tutta la sua famiglia (anche lui si è immedesimato nel dolore di tutti i popoli martoriati dalla guerra). I due sono diventati amici e poi si sono abbracciati. La riconciliazione e la volontà di cercare le ragioni per una convivenza può costruire la pace. Un abbraccio così, tra due persone che hanno perso quanto di più caro avevano e che hanno rinunciato all’odio e all’ira per salvare la propria anima, ecco io qui vedo la pace disarmante e disarmata.

Non bisogna essere ingenui, ma razionali. Noi manifestiamo per la pace. Chi cerca la pace, come me, conosce la guerra. Un mese dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, sono stato a Leopoli, dove ci sono anche le Acli. Non ho fatto niente di eccezionale, ma il solo fatto di essere lì e di consolare quanti ne avevano bisogno è una grande cosa. Solo il fatto di non lasciarli soli ha aiutato quel popolo. Accogliere la paura, il dolore e la fatica aiuta sempre. Serve coraggio, un coraggio che faccia agire i cuori. È la volontà di fare il primo passo, di amare la società nonostante i limiti e l’individualismo, le diffidenze e il male. E oggi serve coraggio più di prima, è tempo di essere fraterni, solidali, individualmente e comunitariamente. Servono scelte coraggiose. Per fare gesti coraggiosi, servono azioni politiche coraggiose. La nostra repubblica deve ratificare il trattato delle Nazioni Unite sulle armi nucleari. Noi non abbiamo mai ratificato questo trattato. L’Italia deve preoccuparsi della riconversione delle fabbriche di armi in fabbriche civili, ripudiando la vendita di armi ai paesi in guerra ed essendo trasparenti rispetto  ai movimenti dei capitali finanziari delle nostre banche per il mercato delle armi. È necessario sostenere la nascita del Ministero della Pace. Perché dobbiamo avere il Ministero della Difesa e non quello della Pace? Nella Pacem in Terris, papa Giovanni XXIII diceva che la guerra è da matti, scritto nero su bianco. La guerra non porta da nessuna parte.

Due giorni fa è morto Mario Primicerio, ex sindaco di Firenze e braccio destro di Giorgio La Pira, un matto della fede. Alla viglia della guerra in Vietnam, lui andò lì a chiedere la pace, fece i suoi discorsi, ma poi non aveva i soldi per tornare a Firenze. Ha fatto un’azione simile a quella di papa Francesco dal sultano, che poi ha portato al fatto che i custodi di Terra Santa, anche quando il territorio era islamico, sono stati i Frati francescani.

Cinquanta anni fa, c’è stata una conferenza di pace a Helsinki, con Gerald Ford. Non era una pace specifica, con vincitori e vinti. C’erano tanti paesi: dal Canada alla Finlandia, dal blocco orientale alla Spagna franchista. Tutti questi paesi hanno cercato le ragioni della pace: il riconoscimento dell’inviolabilità delle frontiere altrui, l’integrità territoriale degli stati, la risoluzione pacifica delle controversie e il riconoscimento dei diritti fondamentali degli esseri umani. La speranza della pace deve diventare un impegno personale. Per la pace serve l’utopia. Come diceva don Tonino Bello, la pace non è statica, ma si mette in cammino. E papa Francesco diceva che la pace è un cammino di speranza e, per concludere con le sue parole: il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta.

Don Antonio Rubino: Grazie Presidente, dalle sue parole emerge con chiarezza come la pace rappresenti un bene prezioso, oggetto della nostra speranza e aspirazione universale. La speranza nella pace costituisce un atteggiamento umano caratterizzato da una tensione esistenziale, per cui anche un presente talvolta difficile può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino.  In tal senso, la speranza si configura come la virtù che ci induce ad agire, infondendoci la forza per perseverare, persino quando gli ostacoli si presentano come insormontabili. San Paolo trovandosi immerso in difficoltà e prove di vario genere scriveva al suo fedele discepolo Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10). Come era nata in lui questa speranza? Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dal suo incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco. Dopo quell’incontro, la vita di Paolo mutò radicalmente: ricevette il Battesimo e divenne apostolo del Vangelo. Sulla via di Damasco, egli fu interiormente trasformato dall’Amore divino incontrato nella persona di Gesù Cristo. Per Paolo la speranza non è solo un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo, il Figlio di Dio, e pervaso intimamente da questa certezza, potrà scrivere a Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10). Il “Dio vivente” è Cristo risorto, presente nel mondo.

Cedo la parola a Sua Eccellenza l’Arcivescovo, che ci parlerà di “Cristo, speranza del mondo”, mettendo in luce ciò che sta al centro della nostra speranza.

S. E. Mons. Ciro Miniero: Permettetemi di ringraziare don Antonio per questi momenti belli e intensi, che ormai da tempo ha proposto alla nostra comunità. Grazie al prof. Prenna, per la sua attenzione e un grazie al Presidente Manfredonia, per la sua passione che ci ha comunicato. Senza la passione non riusciremmo a far nulla, se non essere semplici burocrati. La speranza ha un nome: è Gesù Cristo. Prendo a prestito le suggestioni del professore sulla teologia della speranza di Moltmann, diffusa a cavallo del Concilio Vaticano II. Anche la teologia della liberazione di Gutiérrez si è diffusa negli stessi anni, ma la teologia della speranza è un po’ meno nota. La speranza ci ancora a un futuro o, meglio, è un futuro che ci ancora nel presente.

E noi dobbiamo lasciarci portare, non essendo passivi, nei confronti di un futuro che ci interpella, ma al contrario essendo propositivi e volando. Lo dice Isidoro di Siviglia già nel VII secolo e lo riprende San Bonaventura nel XIII secolo. Fede, speranza e carità sono le tre virtù teologali. Ma corriamo il rischio di impararle come se fossero formule magiche. In realtà è la sintesi di uno stile e di un ideale di vita, che vede in Gesù Cristo il termine ultimo. Non significa che è lontano da noi, ma per proporsi tale, ha compiuto l’operazione di un Dio che, per incontrare l’umanità, si è fatto uomo ed è entrato nella storia. Non per consolarci, ma per darci un cammino. I cristiani sono chiamati “quelli della via” negli Atti degli Apostoli. Siamo quelli in cammino verso la realizzazione di quell’amore che il signore Gesù Cristo ci ha fatto conoscere e che ci attrae a sé. È un amore attraente. Noi siamo cristiani perché ci siamo lasciati attrarre da un Dio che ci ha amati e riconosciamo nell’amore la potenza di quel Dio che ci fa volare e ci permette di realizzare quell’amore nella nostra società. E qui c’è la trasformazione della società. Perché La Pira è alla base dell’Europa? Perché quei valori che non hanno voluto far inserire a fondamento dell’Europa, quei valori hanno messo insieme l’Europa.

Il nostro Dio si è fatto carne ed è venuto in mezzo a noi. E l’espressione che cantiamo ogni anno nel Preconio pasquale è chiara: Cristo, mia speranza (spes mea), è risorto. È lui la nostra speranza, in virtù di quel bene che ci ha donato e in virtù di quella via nuova che ci ha fatto scoprire. Non è una via extraterrestre, è una via segnata dal desiderio di una umanità che ha cercato quella via da sempre. A partire dalle speranze del popolo di Israele, giungiamo alla realizzazione di tali speranze nell’incarnazione del Verbo, Gesù Cristo. Sant’Agostino ribadisce dicendo che  solo la speranza ci fa propriamente cristiani. Perché solo se incarniamo la carità e facciamo del bene, cosa c’è di straordinario?  Cosa cambia rispetto alle grandi organizzazioni che aiutano i popoli, nel nome di una umanità condivisa, senza far riferimento ad alcun Dio? Solo la fede, disincarnata, a chi si rivolge? Allora è chiaro che la fede è indispensabile per la carità. Ma senza la speranza non si va da nessuna parte. La speranza è quell’idea di Gerusalemme dove l’Agnello è la luce, come descritto nel libro dell’Apocalisse. È l’Agnello sgozzato ma vivo sul trono, che regna su una città senza porte, aperta ai quattro punti cardinali, che lascia entrare e uscire tutti con grande libertà. È Gesù Cristo la luce e la speranza. E questa città ci interpella e ci chiede di poterla realizzare giorno per giorno attraverso quei valori che sono sintesi di un messaggio grande: il Signore ha realizzato pace tra cielo e terra e pace tra tutti i popoli.

Ma quanto è difficile? È difficile anche nelle nostre case, nei rapporti interpersonali, non solo nei territori di guerra. È difficile vivere nella speranza e impegnarsi a costruire la Gerusalemme celeste, dove la luce è l’Agnello, dove i criteri di vita sono quelli che Gesù Cristo ci ha aiutato a riscoprire nella nostra realtà umana. E allora non è certamente facile, ma è quello il cammino cristiano. La speranza è il fulcro di tutto, attorno al quale bisogna leggere la carità e la fede. E sono vere le parole dell’apostolo Giacomo: “Dimmi cosa fai e come vivi l’amore verso gli altri e ti dirò in chi credi e chi è il tuo Dio”. Ma senza la speranza questo amore resta tronco. Resta come quei ragazzi che si incontrano in piazza e trascorrono la serata a decidere cosa fare, perdendo il loro tempo. La speranza tira fuori da queste logiche. Lasciandoci illuminare dalla speranza, da Gesù Cristo, dal Suo modello di uomo nuovo, che lui ha realizzato, ma l’ha realizzato non senza di noi, questo ci permette di camminare nella carità e di testimoniare la fede, perché sappiamo dove andare. Il grande problema delle nostre comunità che si sono invecchiate non è l’età delle persone, ma è la testa e il cuore. Noi pensiamo che facendo tutto ciò che abbiamo fatto sino ad oggi, abbiamo assolto al nostro compito di testimoni di speranza. Assolutamente no, non può essere così. Nelle comunità parrocchiali, quando si canta il canto della pace, siamo spesso così tristi, che non traspare speranza. Noi dobbiamo essere testimoni di speranza, dovremmo iniettare speranza. E quando siamo con Cristo, la gioia dovrebbe essere al sommo grado. Il che non vuol dire necessariamente cantare e ballare (perché la nostra cultura non lo prevede, ben venga dove la cultura lo richiede, come in Africa o in America Latina), ma vuol dire il trasporto del cuore, la luce negli occhi, nelle parole. Ma spesso noi siamo rassegnati e chiudiamo il futuro, chiudiamo alla speranza e chiudiamo a Cristo.

Ecco il titolo dell’anno santo, del Giubileo della Speranza.  Una porta che si apre simbolicamente vuole rappresentare il saper guardare oltre i nostri limiti e le nostre chiusure. Quella porta si apre e l’ha aperta Cristo. Cristo ha chiuso la porta della morte, che nei Sepolcri di Foscolo era la fine di tutto. Nel film Il Risorto, si inizia dalla Resurrezione di Gesù e attraverso dei flashback si torna indietro a ritroso, per ricostruire la vita. Zeffirelli, nel suo storico film, davanti alla tomba vuota dice: “Adesso inizia il bello”. Dalla tomba vuota inizia tutto, non dalla pietra messa sulla tomba. Si apre un’epoca nuova, di speranza. San Tommaso d’Aquino diceva che per poter vivere nella speranza, dobbiamo pregare, ma non per isolarci, ma per porci nel cuore di quel Dio che ci è venuto incontro e che vuole per noi solo la felicità. L’oggetto della speranza è Cristo, è la felicità. Ecco perché ci invita ad avere questa potenza, ma non per toglierci dalla vita quotidiana e dalle sue preoccupazioni, ma come potenza dell’amore che ci permette di volare verso il bene ultimo che è quotidiano e che possiamo testimoniare. Diceva KantChe cosa possiamo sperare? A questo interrogativo potremmo rispondere dicendo che l’oggetto della speranza è la felicità, la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Viviamo allora come pellegrini di speranza. Ed è l’invito di papa Francesco quando ci ha consegnato la bolla del giubileo ordinario. Viviamo come pellegrini per divenire grembo materno e generativo di un mondo sempre nuovo.

Don Antonio Rubino: Grazie Eccellenza, e ringrazio anche di cuore il Presidente Emiliano Manfredonia e il prof. Lino Prenna. Ciò che è stato seminato possa, ad immagine della parabola evangelica, portare frutto abbondante e ciascuno di voi sia moltiplicatore, nel proprio ambiente, di questi valori. Grazie a tutti e a ciascuno. Buona serata.