Don Antonio Rubino: Buonasera! Ringrazio tutti per aver accettato l’invito a essere presenti. Saluto i volti nuovi che hanno dato adesione e anche quanti ci seguono ormai da tempo nei nostri percorsi annuali. Inauguriamo questa sera il III Corso di Formazione su un tema attuale e importante: “I Cristiani nel mondo, pellegrini di speranza”, che sintetizza largamente quanto il sinodo ci ha proposto. Il tema che abbiamo scelto, approfondito nei sette incontri che si susseguiranno, sviluppato nell’orizzonte di speranza che illuminerà i percorsi dell’anno giubilare, si ispira ad un antico scritto, che va sotto la denominazione di Lettera a Diogneto. Misterioso nella sua origine e nel suo destino e scritto in un greco di alta qualità, brillante nell’argomentazione che sfrutta sapientemente i mezzi della retorica, questo scritto non ha cessato di attirare giudizi entusiasti: un gioiello dell’antichità cristiana, al quale praticamente nessuno scritto dell’età postapostolica può stare alla pari per spirito e composizione. Ma sono soprattutto gli enunciati sulla funzione dei cristiani nel mondo che hanno affascinato i lettori: mettendo in luce il modello di vita dei cristiani, la realtà spirituale che essi celebrano nei loro riti.
Leggendo dal testo: 1. I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Nel capitolo successivo è descritto il loro modo di vivere, che è espresso con una formula ardita e suggestiva: in una parola, ciò che l’anima è nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo.
Il Concilio Vaticano II ha riscoperto quest’opera riproponendone alcune espressioni nei suoi documenti, soprattutto per descrivere la condizione dei cristiani (vedere Lumen Gentium 38, Dei Verbum 4, Ad Gentes 15). Il Concilio Vaticano II nel proporre l’immagine della Chiesa, popolo di Dio, pellegrino nella storia dei popoli, solleciterà i cristiani ad essere nel mondo un segno del Dio vivo. In particolare, i laici, per l’indole secolare, che li caratterizza, sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo, guidati dallo spirito evangelico e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. L’articolazione del corso recupera anche le indicazioni emerse dall’ultima Settimana Sociale dei Cattolici, che auspicano una rinnovata e responsabile partecipazione della cattolicità italiana alla vita democratica del Paese. I temi che affronteremo sono: “La Chiesa, pellegrina nella storia”, “I cristiani, anima del mondo”, “La remissione dei debiti, per la pace nel mondo”, “Conversione ecologica e cura del pianeta”, “I cristiani e il potere politico”, “La fraternità, per costruire la democrazia”, “La speranza cristiana, per il futuro dei popoli”.
E il tema di questa sera è proprio “La Chiesa, pellegrina nella storia”, ci guideranno don Antonio Bergamo, direttore dell’I.S.S.R.M. di Lecce, e il prof. Lino Prenna, docente universitario. Ma questa sera abbiamo con noi il nostro Arcivescovo e siamo davvero felici della sua presenza. Felici perché l’Arcivescovo ha approvato questo nostro programma e perché sarà con noi questa sera, per iniziare il Corso, e anche durante l’ultimo incontro, per concludere con un Convegno esteso a tutti quanti. A tutti e tre, ringrazio per la disponibilità, per la saggezza con la quale ci parleranno e per quegli elementi teologici, sociologici, ma anche pastorali, che ci saranno sottolineati. A tutti grazie e buon ascolto.
Don Antonio Bergamo: Buonasera a tutti, saluto tutti i relatori con i quali condividiamo questo momento, io sono grato di poter essere qui e di poter riflettere insieme con voi. Desidero condividere con voi la mia riflessione, perché il tema suggerisce questo: tutti siamo nella storia, nel mondo, nel tempo, siamo storie che si dispiegano, intrecciandosi l’una con l’altra, e il tentativo che vogliamo fare è proprio quello di provare a metterci in ascolto e di partire dall’immagine del pellegrinaggio, che trova le sue radici nella sacra scrittura e si sviluppa lungo la tradizione della Chiesa, acquisendo particolare intensità durante il Concilio Vaticano II. Noi viviamo un tempo particolare che Papa Francesco ha definito come cambiamento d’epoca, per essere precisi non è un cambio di modo e basta, ma il Papa si è reso conto del fatto che si è rotta la nostra coscienza di abitare questo mondo.
Questo tempo è stato definito antropocene, un tempo in cui l’uomo è intervenuto così tanto sulla realtà da determinarne gli esiti buoni o cattivi. È faticoso abitare questa realtà perché la nostra coscienza di essere parte della storia è come frammentata, in tanti piccoli rivoli, sia a livello di società, sia a livello ecclesiale, e si fa fatica a stare insieme. Paradossalmente, noi stiamo vivendo un cammino sinodale, che ci aiuta a riscoprire questo mondo in comune nel qual viviamo. Ma perché si è rotta la coscienza di abitare un pianeta che è stato posto nelle nostre mani? Forse perché, nella continua oscillazione tra il senso della catastrofe imminente e l’euforia dello sviluppo, facciamo fatica a concepire l’altro che ci sta accanto come nostro compagno di strada e abbiamo la concezione che l’altro sia in competizione con noi. In questo senso, bastano alcuni principi per guidarci: serve una conversione radicale del pensiero, bisogna essere capaci di sostenere il peso dell’altro.
Come la nostra vocazione cristiana può diventare segno e strumento della presenza di Dio? Come noi, nella storia e nel tempo, possiamo essere gli uni per gli altri compagni di strada, rispettandoci nella solitudine inviolabile di ciascuno di noi e anche attraversandola insieme con colui che quella solitudine l’ha fatta suo gradimento: Gesù Crocifisso e risorto? Che cosa desidera Dio con la sua creazione? Schiacciati come siamo in questa rottura della coscienza sulla nostra presenza nel mondo, facciamo fatica a trovare un senso. E nei momenti dolorosi, sembra che quel senso si eclissi. Probabilmente, nel suo farsi prossimo all’umanità , Dio pensa alla creazione, con la quale si avvicina all’umanità stessa attraverso il suo amore tenero ed esigente, affinché l’umanità, che diventa suo popolo e Chiesa, possa rispondere, nella libertà, allo stesso suo amore, esprimendo tale risposta nell’amore verso i fratelli e le sorelle, attivando nelle pieghe e nelle piaghe della storia, la sua presenzialità. Quello che Gesù ricorda quando dice: dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt. 18,20).
Da sempre Dio, sin dalla storia di Israele è presente. La Gaudium et Spes sottolinea questa consapevolezza: Dio ha voluto che tutti gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro come fratelli (24). E anche il filosofo medievale Duns Scoto ha espresso questo concetto con semplici parole: Dio vuole persone che amino con lui le sue creature e la realtà. Dio ci tratta responsabilmente e pone in noi la capacità di camminare insieme con gli altri. Noi siamo in cammino nella storia accompagnati da Dio in Cristo – che è sceso negli Inferi dei nostri abissi e dei nostri dolori – nella luce e nella forza dello Spirito che ci sostiene dal di dentro. La realtà di questo popolo che cammina pellegrino, trova un base solida nella storia della salvezza.
Già nella storia del popolo di Israele, dall’Esodo, emerge l’immagine di una comunità in cammino, fatta da tante persone, ciascuna unica, speciale, ma parte di una realtà comune. Questa comunità è chiamata a sfidare le circostanze, fidandosi della guida di Dio. Nel Nuovo Testamento la Chiesa è presentata come un corpo che, pur vivendo nel mondo, non appartiene allo stesso, ma è proiettata al di là dello stesso. Noi siamo “tempo” e viviamo in un mondo definibile “seculum”: il mondo è il tempo che noi viviamo. Il Concilio Vaticano II riprende questa visione dicendo che la Chiesa è sacramento di salvezza e popolo di Dio in cammino. La Chiesa pellegrinante è chiamata dal Signore alla salvezza e invitata a diffondere la luce del Vangelo. Il che vuol dire aprire nelle pieghe e nelle piaghe della storia individuale e collettiva degli spazi di condivisione e di prossimità. Questi passaggi rispecchiano una duplice tensione che caratterizza la natura dell’essere Chiesa: da una parte, l’origine divina e la promessa di salvezza, dall’altra, la necessità di essere nel mondo e per il mondo, in uscita. Noi non possiamo “gestire” tutto ciò, ma dobbiamo “gestare”, e in una gestazione c’è sempre il travaglio. La Chiesa, da un lato, è segno e rinvia al di là di se stessa, apre spazi di testimonianza del traboccante amore Dio; dall’altro, oltre a essere segno, è strumento per realizzare la comunione tra Dio e l’umanità e la comunione reciproca tra gli uomini. Quando il cristianesimo appare nei primi secoli, nel mondo pagano, emergono delle differenze importanti: i cristiani alla prepotenza oppongono la mitezza, alla sete di vendetta il desiderio di perdono e così via. Essere segno e strumento, comunione e missione. Questo duplice legame è decisivo nel mondo attuale, che è invaso da un flusso costante e ininterrotto di parole, tutti abbiamo nelle mani un finestra sul mondo. In un mondo inflazionato di parole, anche la parola missionaria e la promozione verbale della fede faccino fatica a diffondersi, perché non riescono a spiegare la loro forza, in quanto sono parte di questa enorme valanga di parole e può capitare che le parole della fede agiscano in modo controproducente.
Essere in cammino significa condividere il nostro tempo, sperimentando il Vangelo nella vita, nella comunione con Dio e con i fratelli. La lode e l’adorazione di Dio sono la prima cosa: la capacità di contemplare la realtà e di elevare il proprio pensiero a Dio in lode e adorazione. Il secondo elemento fondamentale è la prossimità: la nostra identità di presenti e di Chiesa, non è solo quella di quanti danno qualcosa agli altri, ma anche quella di coloro che, pur dando tempo, sperimentano di ricevere. Noi siamo sempre e costantemente la mano che dà e che riceve aiuto, la parola offerta e lo spazio di risonanza di quella parola. La qualità del camminare insieme è fondamentale per far emergere la meta. Papa Francesco offre un’immagine alla Chiesa pellegrina: ospedale da campo, che deve raggiungere le periferie esistenziali, le zone di calamità. E sempre il Papa nell’Evangelii Gaudium dice, con un’immagine audace: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti (49).
Prof. Lino Prenna: Per evidenziare la continuità con gli incontri degli anni passati, il mio intervento è stato intitolato: “Il popolo, un ‘destino’ comune”. La definizione è di Papa Francesco e il suo pensiero a riguardo è vasto. Da marzo (mese di elezione di Bergoglio) a novembre (mese di promulgazione del testo), Papa Francesco non poteva sviluppare un pensiero così suggestivo e così complesso. Da una lettura di tutto ciò che Bergoglio (Provinciale dei Gesuiti, Vescovo, Arcivescovo e Cardinale) ha scritto in Argentina, i testi più recenti del Papa emergono in quanto momento evolutivo del suo pensiero, nonché come trascrizione di intere pagine di discorsi di cose da lui dette come pastore della sua diocesi.
In un’intervista che Papa Francesco rilascia alla stampa nell’agosto del 2019, al giornalista, Domenico Agasso, che gli chiede cosa pensi del popolarismo, il pontefice risponde che il popolarismo è la cultura del popolo. È un genitivo soggettivo e oggettivo, il popolo è soggetto e oggetto della cultura, il popolo è: il farsi della storia, un destino comune, un percorso che attraversa la storia e, come un fiume, porta con sé alla foce tutto ciò che trova nel suo letto. Quella cultura del popolo si ritrova nella teologia del popolo che è un filone della teologia della liberazione.
Il popolo si costruisce ed è compito della politica edificare il popolo. Il popolo si differenzia dalla massa: la dignità di popolo è propria del popolarismo, la condizione di massa caratterizza il populismo. Il popolo lo si costruisce e la politica è l’arte di costruire la città, come direbbe Lazzati. Costruire il popolo è costruire la città. La cittadinanza è la convocazione a vivere l’esperienza della città come esperienza politica. Nel linguaggio di Bergoglio i vincoli sociali che caratterizzano un popolo prendo il nome di amicizia sociale, direzione politica dell’amore, nonché virtù di essere cittadini che raccolgono la condizione conflittuale dell’essere popolo. Il popolo è un realtà pluriforme, all’interno ci sono varie concezioni. Il Papa predilige il poliedro alla sfera, proprio per sottolineare questa caratteristica.
Il tema della laicità è fondamentale, ultimamente se ne parla sempre meno. Vi rinvio all’etimologia della parola, laos, che vuol dire popolo. La laicità è la condizione del popolo, coincide con popolarità, etimologicamente. Il popolo, nella sua elevazione attraverso la grazia, è laico, ma all’interno, avendo una condizione conflittuale, la laicità è principio che permette di distinguere per unire, è principio di distinzione e di unità. La laicità è condizione naturale del popolo e anche nel nostro tempo dovremmo riscoprirla. Il Papa dice che il tempo avvia i processi, lo spazio si preoccupa di occupare i posti; quindi, il tempo è superiore allo spazio. Trasferendo questo discorso nella realtà ecclesiale, dagli scritti di Papa Francesco è difficile capire se quando usa la categoria popolo si riferisca solo alla condizione naturale di popolo oppure se si riferisca a quella soprannaturale di popolo elevato dalla grazia, nel sacramento del Battesimo, e divenuto Chiesa. La mia idea è che, comunque, in questa concezione prevalentemente tomistica, il Papa vuol dire che lo stesso popolo elevato all’ordine della grazia, diventa popolo di Dio e Chiesa: la grazia eleva la natura. L’ordine naturale si eleva al soprannaturale. Si crea nell’ordine della sovra-natura un nuova antropologia. La Chiesa non è una realtà definita: come il popolo, a livello della natura si costruisce, così a livello della grazia esso si edifica, ad esempio attraverso la liturgia, la religione – definita da Rosmini come l’educazione che Dio dà all’umanità. – Quindi, vivere l’esperienza ecclesiale vuol dire mettersi nel cammino, in un cammino di progressione e che edifica la Chiesa di Dio e il Regno di cui la Chiesa è segno e strumento nel tempo.
S. E. Mons. Ciro Miniero: Grazie don Antonio, grazie per questi momenti di riflessione che, sicuramente, aiutano quanti vi partecipano a entrare ancora di più nel cuore vivo della riflessione circa la nostra identità. Grazie ai relatori di questa serata, che ho avuto già modo di apprezzare, grazie per la presenza, la pazienza e l’ascolto di tutti durante questi incontri di formazione. Quelle che ho ascoltato, sono entrambe riflessioni che ci hanno aiutato a mettere al centro la nostra vita, sia nel movimento della storia, in quanto persone, sia nel movimento del popolo di Dio, in quanto membri dell’umanità. Ricordo un progetto pastorale degli inizi degli anni Ottanta, ad opera di Juan Baptista Cappellaro, del Movimento per un Mondo Migliore, fondato da padre Riccardo Lombardi, zio di Federico Lombardi, padre gesuita portavoce della Santa Sede, molto vicino al Concilio Vaticano II. Padre Cappellaro, italo-argentino, è un discepolo di Padre Lombardi e scrive questo progetto ma, prima di entrare nel merito della progettualità pastorale, prende a esaminare quanto il Concilio Vaticano II aveva detto pochi anni prima, anche alla luce dei documenti dell’America Latina, fra i quali Puebla. La riflessione che porta avanti è proprio quella che troviamo nel pensiero di Papa Bergoglio. Io mi sono confronto personalmente con Papa Bergoglio in un’udienza privata. Lui mi ha confermato tutto questo e mi ha detto che continua ad andare avanti nell’idea di un cammino di una umanità nuova che nasce dall’esperienza di popolo, ma che ha necessità di prendere consapevolezza della propria fedeltà al progetto di amore di Dio. Per questo Il Papa parla di “popolo fedele”.
E allora, dopo aver rinfrancato i nostri cuori da queste direttive che la storia ecclesiale ci dà, ci riconosciamo tutti come pellegrini; il problema è quando perdiamo questa dimensione, perché abbiamo un passato ma abbiamo anche un futuro. Dunque, guai a fermarci, a guardare indietro ed essere statici, la Chiesa non è una realtà statica. Sono preoccupato quando nei modelli di Chiesa guardiamo a una Chiesa che non c’è più. Possiamo scoprire qualcosa di nuovo, ma non andarci a rifugiare in qualcosa che non c’è più, anche nelle forme estetiche del passato.
L’invito dell’anziano Papa Giovanni Paolo II, che all’inizio del suo magistero disse di non avere paura e di aprire, anzi di spalancare le porte a Cristo, è quanto mai attuale. Quel monito, gridato in piazza San Pietro, è ancora il monito che mette in movimento il cuore di un popolo fedele, il nostro cuore. Ricordiamo insieme le espressioni di un altro Papa anziano, che, nel convocare il Concilio Vaticano II, prende le distanze dagli uccelli di malaugurio, cioè da quelle anime sfiduciate che non vedono altro che tenebre gravare sulla faccia della terra; noi invece amiamo riaffermare – dice Giovanni XXIII – tutta la nostra fiducia nel Salvatore nostro che non si è dipartito dal mondo è presente. Ecco la potenza della forza di chi si mette in cammino, lasciando la situazione di comodo, lasciando le cipolle di Egitto. Di cipolle nella storia se ne assaggiano tante e potrebbero sembrare rifugio nei momenti di difficoltà, ma la storia va affrontata con tutte le sue difficoltà, per affermare la nostra identità di persone e di popolo.
Ecco allora l’invito a prendere il largo, come dice Papa Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte (2000), prendere il largo come Pietro; così noi dobbiamo vivere, in questa dimensione di pellegrini, certo, perché sappiamo di avere sempre una meta (che sembra solo in apparenza molto lontana) da raggiungere man mano che camminiamo. Però dobbiamo camminare per raggiungerla, perché altrimenti non viene verso di noi. Ma sappiamo anche di avere quella spinta, quella forza che è Cristo che è venuto nella storia, che è lo Spirito che ci tira (scusate le varie immagini che però ci aiutano a comprendere). E allora dobbiamo essere sempre un popolo pellegrino nella storia, certo di una patria, che non riusciamo a raggiungere quaggiù, perché la patria finale non è altro se non il cuore del Signore.