“L’Unione Europea per una cultura della pace”

lunedì 10 giugno 18.30-20.00

Don Antonio Rubino: Buonasera! Un caro saluto a tutti e un ringraziamento a ciascuno di voi per aver accettato l’invito dell’Ufficio Cultura a essere qui per concludere il II Corso di Formazione. Abbiamo dato inizio al corso il 24 novembre, con un primo incontro presieduto da S. E. Mon. Miniero, e, dopo sette appuntamenti, guidati dal prof. Prenna, questa sera lo concludiamo ancora con la presenza del nostro Pastore, che sento il dovere, a nome di tutti noi, di ringraziare di cuore per la sua presenza. Credo sia doveroso, all’inizio, fare un breve riepilogo del corso, per comprenderne la notevole portata formativa.

Lorenzo Musmeci: Buonasera! Il II Corso di Formazione, sul tema L’umanesimo europeo per la fraternità dei popoli, promosso dall’Ufficio Cultura della nostra diocesi, per l’anno pastorale 2023/2024, si è inserito nella dinamica delle attività diocesane in perfetta continuità con le tematiche sviluppate negli anni scorsi e, in particolare, con il I Seminario di Formazione, sul tema Popolo di Dio e fraternità dei popoli: dal Concilio Vaticano II a Papa Francesco, promosso dall’Ufficio Cultura, per l’anno 2022/2023. Sette densi incontri di formazione – ben quattordici considerando anche quelli dell’anno precedente – ci hanno aiutato a vivere con maggiore consapevolezza il presente e a capire che, per rispondere con coscienza ai mutamenti che caratterizzano l’Unione Europea, è necessario – per usare un’espressione dell’ex Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli – “caricarci sulle spalle l’ansia di cambiamento che ci ha trasmesso papa Francesco”. È proprio il nostro pontefice, infatti, a invitarci a recuperare la progettualità dei padri fondatori, pur aprendoci alla complessità del mondo presente. 1. Il corso ha sottolineato la portata della crisi antropologica che attraversa la nostra società e la necessità di un umanesimo europeo come unica risposta, capace di far emergere il primato della persona umana e di instaurare una transizione antropologica. Se il popolarismo è la cultura del popolo, l’umanesimo è la costruzione del popolo e, nell’accezione proposta da papa Francesco, il nuovo umanesimo mira alla fraternità di tutti i popoli, senza frontiera alcuna. È lo stesso ideale di fraternità già proposto, ben ottocento anni fa, da San Francesco, “il poverello d’Assisi” che usa l’espressione “fratelli tutti”, per rivolgersi ai suoi interlocutori, e che possiamo considerare il fratello universale per eccellenza, tanto degli uomini quanto del creato. 2. Per disambiguare il termine umanesimo, si è approfondito il pensiero di Emmanuel Mounier, fondatore del personalismo comunitario, e di Jacques Maritain, padre dell’umanesimo integrale. Partendo da queste basi, è stato possibile analizzare l’“umanesimo plenario” che papa Paolo VI presenta nell’enciclica Populorum Progressio. Si tratta di un umanesimo che ha come orizzonte “lo sviluppo integrale dell’uomo [e] lo sviluppo solidale dell’umanità” e che è sempre aperto all’Assoluto. 3. Queste chiavi di lettura ci hanno guidato sino alla definizione di “nuovo umanesimo europeo” che papa Francesco enuncia nel discorso per il conferimento del premio Carlo Magno. Traendo ispirazione dal passato al fine di affrontare il futuro, il pontefice auspica che il nuovo umanesimo si basi su tre capacità: “la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare”. Integrare la pluralità di popoli che bussano alle porte della Madre Europa, dialogare con l’altro per riconoscerlo e accoglierlo, generare nuovi dinamismi che coinvolgano tutti gli attori sociali. 4. È la trama di relazioni fra questi attori della società, nonché i legami che caratterizzano l’identità di un popolo, a costituire quell’amicizia sociale indispensabile per promuovere la fraternità universale. Il dialogo è lo strumento migliore per favorire l’amicizia sociale, intesa come dimensione politica dell’amore e come convivenza delle diversità. Questi concetti ci hanno aiutato a riflettere sul tema del consenso, definito come la volontà di sentire insieme con gli altri, con la consapevolezza che ciascun uomo vale per quello che è e non per quello che ha. 5. Il corso ha più volte insistito sul ruolo della fraternità, intesa da papa Bergoglio come “promessa mancata della modernità” (Lettera Humana Communitas al presidente della Pontificia Accademia per la Vita, 2019) e come unica realtà in cui “il mondo avrà futuro” (Discorso ai Giovani, in occasione del Viaggio Apostolico nel Regno del Bahrein, 2022). Il concetto di fraternità, che è figlio della Rivoluzione Francese, è definito dal pontefice attraverso la parabola del buon samaritano: è la prossimità di chi ospita, accoglie, assiste, cura, è l’amore nella sua forma più elevata. Ecco, allora, che la fraternità diventa indispensabile per umanizzare la democrazia, unendosi ai diritti di libertà e ai doveri di uguaglianza, ma andando oltre, esercitando la solidarietà come virtù politica e la responsabilità come etica della società. 6. Per comprendere l’assetto macrosociologico del presente, si è esaminato il tema della globalizzazione economica e di quel “paradigma tecnocratico” che papa Francesco definisce nell’enciclica Laudato si’. Esso si presenta come l’alleanza tra la tecnologia e l’economia, in cui “l’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto”. Così, dunque, la solidarietà diventa mezzo per promuovere la giustizia sociale, coniugando la tensione tra globale e locale e risolvendo quest’ultima su un piano superiore, che ci permetta di pensare globalmente e di agire localmente. 7. Per riassumere, durante il corso, è stato chiarito che la storia dell’Unione Europea non può che voler proseguire nel cammino di integrazione, umanizzazione e fraternizzazione dei popoli e delle culture. Ma un ultimo tassello è necessario per completare questo quadro: come anticipa il Documento sulla Fratellanza Umana, per la pace mondiale e la convivenza comune, in occasione del Viaggio Apostolico negli Emirati Arabi Uniti, 2019, è fondamentale, e quantomai attuale, ribadire il valore imprescindibile di una cultura della pace. Su questo tema, la parola passa ai relatori di questa serata.

Don Antonio Rubino: Ringrazio il corsista per questa sintesi. E questa sera, dopo i saluti di don Francesco Castelli, sarà il prof. Lino Prenna a trattare il tema de “L’Unione Europea per una cultura della pace” e il prof. Alessandro Barca quello de “La difficile pace oggi”, concluderà S. E. Mons. Ciro Miniero sul tema “Opus justitiae pax” (Is. 32, 18). Il convegno assume particolare rilevanza dopo l’esito delle elezioni europee che hanno tracciato il profilo politico dell’Unione Europea per i prossimi cinque anni, ma  anche per la situazione internazionale travagliata dai conflitti in atto.

Don Francesco Castelli: Buonasera a tutti, all’Arcivescovo e ai relatori. Il tema della pace è un tema che amo particolarmente. Ricordo un incontro organizzato presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose con una delle figlie di Aldo Moro sul tema del perdono, come valore civile e non etico. Gli studi recenti, dalle università americane e dalla Gregoriana di Roma, hanno dimostrato che una persona  deve perdonare e introdurre percorsi di pacificazione, per un fatto sanamente egoistico, concedendosi il lusso di vivere in pace con chi, o con cosa, gli ha fatto un’offesa. Sul piano civile questo ha delle ricadute importanti: alcuni studi dell’Università di Cambridge dimostrano che una persona che perdona ha meno problemi di gastrite, dermatite, cardiovascolari e credo che sia un’esperienza che facciamo tutti. Ecco perché è un  tema che mi appassiona particolarmente.

Inoltre, la pace è il primo dono del Risorto ai discepoli: “Pace a voi”. Ma a me piace essere un pizzico polemico: il mondo ecclesiastico ha riflettuto solo di recente sul tema della pace. Tutti penserete all’enciclica Pacem in Terris di papa Giovanni XXIII, ma, essendomi recato di recente presso l’Archivio Apostolico per delle ricerche, possiamo anticipare uno scoop: dopo le esplosioni delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, papa Pio XII chiamò l’allora assessore del Sant’Uffizio Alfredo Ottaviani e gli chiese di preparare un’enciclica sull’odio internazionale e sulla pace. La trascrizione delle bozze non vide la luce, perché papa Pio XII non se la sentì di cambiare il magistero a fronte di armi atomiche che avrebbero potuto cambiare le sorti dell’umanità. Tutto ciò è importante a livello storico, per la comunità cristiana, che dovrebbe sempre restare al passo con la storia. I bambini dell’Iniziazione Cristiana dovrebbero fare percorsi sulla riconciliazione e sulla pace, su una pace non politica, ma individuale. Gli studi dicono che l’empatia e l’umiltà sono fattori prospicienti la pace e il perdono, invece, la ruminazione interiore  e l’odio sono fattori ostacolanti il perdono e la pace. E noi dovremmo fare dei passi in avanti. Nelson Mandela, nella commissione sulla riconciliazione e la pace in Sudafrica, pur essendo un cristiano protestante e non cattolico, ha insegnato molte cose. La vita di fede non può ridursi alla reiterazione di riti. I riti devono essere propedeutici e il tema della pace deve essere soprattutto personale.

Si vede quando una persona non è in pace con sé e con gli altri. E ci sono maestri di pace nelle nostre comunità. Alla luce dei già citati Mounier e Maritain, non so se, di fronte alla crisi che stiamo vivendo in Europa, ci sono leader che nascono dalla comunità cristiana che stanno puntando i piedi e che stanno dando indicazioni di pace. Secondo me su questo tema bisogna riflettere. Non possiamo rimandare al papa sempre la soluzione dei problemi, non è lo spirito del Vangelo, ognuno di noi deve costruire ciò che è giusto.  Poi c’è il rapporto tra pace e fraternità. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, un sacerdote don Zeno Saltini costituì a Nomadelfia (il cui nome vuol dire “la fraternità è legge”) una comunità; lui pensava di declinare in chiave legislativa il principio della fraternità. Lui fu il primo e fu un prete, non so se noi siamo così coraggiosi su questo punto. Esistono parrocchie fraterne e la pace internazionale si costruisce anche con piccoli gesti quotidiani. Essere capaci di pace vuol dire essere in grado di fare la guerra all’ipocrisia, alla bugia, alla falsità, alla doppiezza e all’opportunismo.

Queste riflessioni, quasi aforismatiche, forse senza nesso apparente, possono essere piste di riflessione: l’esigenza civile internazionale, il messaggio di Gesù, le intuizioni di alcuni sacerdoti all’indomani dalla Seconda Guerra Mondiale, il bisogno di declinare questo valore nella nostra pedagogia sono cose importanti. Un ultimo riferimento va all’iniziativa di Benigno Luigi Papa “Arcobaleno di pace nel Mediterraneo” per la quale la nostra diocesi ha ricevuto i complimenti delle alte sfere. La chiesa di Taranto si mostrò profetica e seppe incarnare la vocazione di parlare agli uomini della pace. Dobbiamo avere il coraggio di essere ambiziosi e di guardare oltre il nostro marciapiede, se abbiamo un minimo di autostima in quanto persone e in quanto cristiani.

Prof. Lino Prenna: Bene, questa sarà l’ultima delle mie lezioni del corso. Preciso che la tematica del corso trova in questa ultima lezione la sua conclusione, non solo perché l’umanesimo è finalizzato alla costruzione della pace, ma anche perché l’ispirazione di tutto il corso l’abbiamo attinta al pensiero inedito e suggestivo di papa Francesco. Ma ricordo brevemente che l’Europa agli inizi del Novecento, del secolo scorso, è divisa e si è combattuta in una serie di guerre (es. Guerra dei Cent’anni). È il profilo storico dell’Europa, un’Europa che ha combattuto se stessa, perché le guerre erano tra popoli europei. Il Novecento inizia con la Prima Guerra Mondiale e, non sufficientemente versato il sangue dei nostri martiri, ci sarà la Seconda Guerra Mondiale. Bene, l’Europa di oggi nasce all’indomani della Seconda Guerra Mondiale; nasce in quei paesi dove era diffuso il germe dell’odio, ma per merito di alcuni uomini illuminati, ferventi cristiani, coraggiosi e ambiziosi operatori di pace.

La Comunità Europea è concepita nel 1951 dai padri fondatori dell’Europa moderna: il francese Robert Schuman, il tedesco Konrad Adenauer e l’italiano Alcide de Gasperi. E nel 1951 l’Europa è concepita attorno al carbone e all’acciaio, materie allora indispensabili per fare la guerra; per prevenire ogni velleità di farne un ulteriore uso. Altri si unirono a questi uomini, con l’intento di riconciliare i popoli e di cancellare gli odi e le vendette. Trovare qualcosa su cui lavorare insieme sul piano economico fu possibile grazie al Trattato di Roma del 1957, che segnò l’inizio di un cammino che vide lentamente l’aggregarsi di vari popoli. Nel corso di un lungo processo di integrazione e di adesione di nuovi stati membri, si arrivò alla firma di altri trattati, tra i quali il Trattato di Maastricht del 1992. E con quel trattato l’Europa assunse la struttura attuale e prese il nome di Unione Europea, noi oggi parliamo di Unione Europea a partire dall’entrata in vigore di quel trattato il 1° novembre del 1993. Voglio anche ricordare che il 29 ottobre del 2004, fu firmato a Roma il Trattato che adotta una costituzione per l’Europa, un titolo vago che non propone una costituzione unica per una serie di conflitti di idee; per fortuna, non si arrivò a deliberare una costituzione. L’Unione Europea, col trattato di Maastricht, aveva proclamato ma non istituzionalizzato la sua nascita. L’Unione attuale non ha una costituzione, un volto politico e una politica comune.

La storia delle nostre costituzioni democratiche europee non prescinde dal demos, il popolo, e dall’ethos, il costume, il modo di pensare, l’etica. L’Europa non ha un popolo ma può ricorrere, abbandonando il termine nazione, può adottare il termine popoli, un’unione di popoli. Se nazione è un concetto divisivo, popolo è un concetto unitivo. Questo trattato enuncia i valori e gli obiettivi dell’Unione, che si prefigge di promuovere la pace (è scritto esplicitamente), i suoi valori e il benessere dei suoi popoli. Anche in questo voluminoso trattato, con più di cento ampi articoli, si preferisce usare la parola popolo e questo è importante. Dal punto di vista sociologico, l’Ottocento è il secolo delle nazioni, e l’Italia con il Risorgimento ne è l’esempio, ma è interessante che i pedagogisti di allora si preoccuparono di fornire alla nazione nascente un’educazione: l’educazione popolare. L’educazione nazionale è un’educazione popolare. Tutti gli autori parlano di questo, anche Rosmini. Non è sottile elaborazione culturale, bisogna fare attenzione perché il passaggio da nazione a popolo non è ancora avvenuto. È, però, la prospettiva verso la quale deve tendere l’Unione Europea, unendo i popoli, si chiama Unione per questa ragione. Il motto dell’Unione Europea è diversitas in unitate, “la diversità nell’unità”. Papa Francesco direbbe il poliedro e non la sfera. È la differenza e la diversità che creano l’unità e mai l’uniformità. I valori del trattato sono il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia e dell’uguaglianza.

Un grande uomo scomparso alla fine del 2023 è Jacques Delors, presidente della Commissione Europa per dieci anni, socialista convinto, fervente cristiano e padre dell’Europa dei popoli. Egli si è adoperato per la realizzazione di tre obiettivi: la realizzazione di un modello di convivenza civile che portasse alla pace (lui si ispira alla pace perpetua di Kant, non frutto della deterrenza); l’autonomia strategica rispetto alle altre potenze mondiali (il concetto di difesa, sul quale molto si dibatte) intesa non come isolazionismo ma come consapevolezza della propria luminosa tradizione storica (che altro non è che l’umanesimo); la sovranità dell’Unione Europea (termine ambiguo, ma evidente) per consentire all’Europa di affermarsi come attore globale e non portatore di identità nazionali che difficilmente si potrebbero mettere a confronto. L’Europa non è una sostituzione ma come coesistenza delle identità nazionali, che non vedono un’espropriazione, ma una convivenza delle stesse.  Jacques Delors propone un unico sistema politico generativo di un ordine (altro nome della pace, per Agostino la pace è la relatio rerum in ordine, “il rapporto delle cose secondo un’ordinata relazione”), generato dal basso, non verticistico, secondo il principio di sussidiarietà, altro principio fondamentale, a partire alla centralità della persona umana e dalla tradizione del personalismo comunitario e dell’umanesimo integrale. Jacques Delors, nel progettare la sua Europa, fa riferimento a questa vocazione personalistica e al concetto di esprit di “spirito”: nasce l’Europa dello Spirito.

Papa Francesco propone il discorso al Parlamento Europeo il 25 novembre 2014 e, lo stesso giorno, il discorso al Consiglio d’Europa. Il papa incoraggia i parlamentari del nuovo parlamento a tornare alle ferme convinzioni dei padri fondatori, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di lavorare insieme, per superare le divisioni e per favorire la pace e la comunione tra tutti popoli del continente. Il papa ripone la sua fiducia nell’uomo, in quanto persona dotata di una dignità trascendente. In che modo si preserva la dignità della persona? Promuovendo i diritti umani e combattendo le discriminazioni. Il papa dice che promuovere la dignità della persona vuol dire riconoscere che la stessa possiede dei diritti inalienabili. Riconoscere è un verbo fondamentale: i diritti precedono lo Stato perché sono nella persona (Rosmini direbbe che il diritto è la persona sussistente e viceversa). L’uomo non è un assoluto ma un essere relazionale. Il termine trascendente è usato per indicare l’attenzione e la tensione verso l’alto. L’essere umano, pur essendo immanente, è chiamato a guardare verso l’altro. Ma il papa usa il termine relazionare (definizione che i personalisti hanno di persona come principio di relazione, rispetto agli individualisti che non conoscono la relazione). La persona è trascendente non solo nella dimensione verticale, ma anche in quella orizzontale. La trascendenza orizzontale consiste nell’uscire da sé e nell’andare verso l’alterità e oltre se stessi. Il papa dice che si guarda al cielo di Dio e alla terra dell’uomo.

Il papa incoraggia anche i membri del Consiglio d’Europa, perché dice che riconoscere in ogni essere umano la dignità, riconoscere nell’altro non un nemico ma un fratello da accogliere, è la via privilegiata per la pace. La pace è questo: un processo continuo e mai raggiunto pienamente. Questo lo compresero i padri fondatori che intuirono che la pace era un bene da conquistare quotidianamente, che esigeva assoluta vigilanza. Erano consapevoli che le guerre si alimentano nell’intento di prendere possesso degli spazi, cristallizzando i processi che vanno avanti e cercando di fermarli. Viceversa, cercavano la pace che si può realizzare soltanto nell’atteggiamento costante di quanti iniziano processi e li portano avanti. Uno dei principi cari al papa è proprio il fatto che il tempo è superiore allo spazio. I padri fondatori erano convinti che non si trattava di prendere possesso degli spazi e di cristallizzare i processi, ma di avviarli e di portarli avanti. In tal modo affermavano la volontà di camminare maturando nel tempo, perché è proprio il tempo che governa gli spazi, li illumina e li trasforma in una catena di continua crescita, senza vie di ritorno. Ed è l’augurio che rivolgiamo all’Europa uscita dalle urne ieri e l’altro ieri.

Prof. Alessandro Barca: Per iniziare sono doverosi i miei ringraziamenti a tutti. Oggi presterò la mia voce al papa. Il santo padre più volte ripete queste parole nei suoi discorsi: coerenza, testimonianza e coesione. Quanta coerenza c’è stata nel nostro voto di questi giorni se più del 50% delle perone del nostro territorio non ha votato? Evidentemente queste tematiche non sono di interesse nazionale, ma sono di interesse di poche persone. Il percorso della pace è un percorso lungo e serio, che necessita di molto tempo. Il papa esorta i giovani con queste parole: Desidero mettere in risalto la solidarietà, che, come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della conversione personale, esige un impegno da parte di una molteplicità di soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo. Il mio primo pensiero va alle famiglie, chiamate a una missione educativa primaria e imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici gesti di devozione che le madri insegnano ai figli. Per quanto riguarda gli educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di aggregazione infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i bambini e i giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona. I valori della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà possono essere trasmessi fin dalla più tenera età. Anche gli operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo dell’educazione e della formazione, specialmente nelle società contemporanee, in cui l’accesso a strumenti di formazione e di comunicazione è sempre più diffuso.

Chi insegna conosce le indicazioni nazionali per il curricolo e sa che sono un documento laico, in cui c’è scritto che la scuola concorre alla dimensione morale, etica e spirituale della persona, poi a parte ci sono le indicazioni per gli insegnanti di religione cattolica; quindi, all’interno di uno stato laico, il documento riconosce il valore della scuola come agenzia educativa di responsabilità. E il papa lo ricorda sempre agli insegnanti di religione, dicendo che questi ultimi non sono esclusi, ma sono testimoni di pace, solidarietà, coesione e responsabilità. Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo dialogare. Nei condomini le perone si incontrano nell’ascensore e a stento si guardano, è difficile allora parlare di pace e dialogo, di corresponsabilità e di Jacques Delors, del tesoro dell’educazione, come dice lui stesso. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Quanto lavoro di dialogo compie, ad esempio, il nostro arcivescovo.

Cari studenti e cari insegnanti, voi avete messo al cuore del vostro impegno due parole chiave: pace e cura. Sono due realtà legate tra loro, la pace, infatti, non è soltanto silenzio delle armi e assenza di guerra; è un clima di benevolenza, di fiducia e di amore che può maturare in una società fondata su relazioni di cura, in cui l’individualismo, la distrazione e l’indifferenza cedono il passo alla capacità di prestare attenzione all’altro, di ascoltarlo nei suoi bisogni fondamentali, di curare le sue ferite, di essere per lui o lei strumenti di compassione e di guarigione. Questa è la cura che Gesù ha verso l’umanità, in particolare verso i più fragili, e di cui il Vangelo ci parla spesso. Prendersi cura nasce da una società inclusiva, fondata sulla pace e sul dialogo. In questo tempo ancora segnato dalla guerra, vi chiedo di essere artigiani della pace. In una società ancora prigioniera della cultura dello scarto, vi chiedo di essere protagonisti di inclusione; in un mondo attraversato da crisi globali, vi chiedo di essere costruttori di futuro, perché la nostra casa comune diventi luogo di fraternità, di solidarietà e di pace. Pensate ai bambini, anzitutto alla guerra in Ucraina che ha rubato il sorriso ai bambini e la guerra nella Striscia di Gaza dove sempre i bambini hanno fame e soffrono sotto le mitraglie. Vi auguro di essere sempre appassionati di quel sogno di futuro.

Poi il papa ha preso in prestito il motto di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, che al “non mi importa”, tipico dell’indifferenza menefreghista, opponeva l’“I care”, cioè il mi sta a cuore, mi interessa. Che anche a voi stia sempre a cuore la sorte del nostro pianeta e dei vostri simili; vi stia a cuore il futuro che si apre davanti a noi, perché possa essere davvero come Dio lo sogna per tutti: un futuro di pace e di bellezza per l’umanità intera”. Il papa ci saluta, allora con uno sguardo al giubileo che inizierà a Natale 2024. Tempo di pace o tempo di regali? Tempo di attesa o di un nuovo smartphone? I nostri giovani si sentono spesso impotenti e frustrati. Il giubileo sia l’annuncio che Dio non abbandona mai il suo popolo e che Dio tine sempre le porte aperte del suo regno. Magari sarà il tempo per deporre le spade e non imparare più l’arte della guerra.

S. E. Mons. Ciro Miniero: Grazie innanzitutto a te, don Antonio, per questo incontro e per questi incontri che hanno dato la possibilità a tanti di riflettere in una maniera straordinaria. Io ci sono stato all’inizio e alla fine e, già dall’inizio, mi sono reso conto della forza di questi incontri e di quanto suscitino in tutti noi desideri di bene, attraverso la conoscenza di situazioni e realtà che continuano ad animare il bene della nostra società. Anche se sappiamo che bisogna continuamente lottare e fare resistenza rispetto a quelle tensioni che impediscono alla pace di radicarsi nel cuore dell’umanità e di questa Europa, nonostante tutto il bene. Grazie anche al prof. Prenna, per questo incontro che chiude e che ci mette in una prospettiva di futuro. Perché senza prospettive, noi cristiani non ci poniamo nell’asse della Resurrezione. La Resurrezione è guardare in avanti, guardare in avanti, per tirare la storia in avanti.

Le parole che devo commentare sono poche parole ma che ci riportano il senso della nostra esistenza “Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri”. E qui c’è tanta speranza, perché queste parole, pronunciate dal profeta, tengono presenti situazioni che non erano situazioni di pace, come oggi ancora Israele vive e come oggi ancora noi viviamo in Europa. Nonostante questi anni di tensione, volta a far camminare tutti i popoli verso l’unità, ancora abbiamo ventate di discriminazione, che ci fanno comprendere che, nonostante tutto il cammino fatto, abbiamo bisogno di portare nel cuore queste parole. Non è un desiderio del profeta; di storia ne è stata scritta nella vita dei popoli e tante resistenze sono state superate ma tanto ancora non è realizzato. Ecco perché ci serve la speranza che deriva dalle parole del profeta. Quindi ben vengano questi incontri che ci preparano alla pace, una pace da vivere nelle nostre realtà quotidiane, da promuovere su orizzonti più ampi, da costruire con il nostro impegno quotidiano. Non possiamo lamentarci delle divisioni e delle guerre se nei nostri cuori alberga ancora qualche riserva nei confronti del bene comune e del camminare insieme.

Costruire la pace è più faticoso della guerra. Ed è una guerra in positivo. Le parole di Gesù: “Pensate che io sia venuto a portare pace? Sono venuto a portare un fuoco!” Quando ero ragazzo mi sembravano parole assurde, come quelle di ieri (tutto sarà perdonato, tranne la bestemmia contro lo Spirito Santo), sono parole che ci mettono in apnea e che ci lasciano senza respiro, ci chiediamo cosa potrebbe aver voluto dire il Maestro. Certo, ci vuole un fuoco più potente di quello delle armi per metter la pace, perché ci vuole il cambiamento di se stessi e, se non c’è questo cambiamento e se questa guerra non la facciamo dentro di noi, non la possiamo pretendere dagli altri. Questo è il primo cambiamento per poter, non trascinare, ma indicare, con la nostra vita, il mondo di pace, una dimora di pace, un luogo sicuro. Che non è quello del Nirvana, me ne scusino quanti praticano queste discipline orientali che fanno vivere in un  mondo che non c’è. La pace va costruita sulla terra, nelle nostre relazioni, nei nostri rapporti, non solo con le persone, ma con i modi di pensare delle donne e degli uomini di oggi, con le sofferenze dei piccoli di oggi. Lì la pace va alimentata continuamente. Sono parole che non ci tirano fuori dal mondo per farci vivere nell’illusione che tutto è possibile, al contrario ci invitano ad avere un atteggiamento di forte contrasto e conflitto con la nostra coscienza, che troppo spesso è addomesticata per essere pronti con unità interiore e sapere che è possibile vivere la casa comune.

Da quando il Signore è andato via fisicamente dalla terra, la storia ha avuto un cambiamento unico. Io non riesco a immaginare a livello politico, sociale ed economico, una storia dell’umanità senza l’insegnamento del Maestro, di Gesù Cristo. Perché quell’insegnamento ha innescato tante bombe di pace che poi sono esplose nella storia, dando una variegata gamma di ricchezza, penso all’accoglienza dei piccoli, degli schiavi, il superamento delle classi sociali e tante altre realtà. Tutto parte da quei discorsi che la chiesa si è sforzata di mettere in pratica, superando le logiche mondane, per instaurare un clima di pace. Allora grazie per questi incontri che ci aiutano a guardare in avanti con speranza, ma tenendo il cuore ben radicato alle ragioni della storia.

Don Antonio Rubino: Vi chiedo ancora un minuto per ringraziare S. E. l’arcivescovo per la disponibilità e la presenza in mezzo a noi. Per ringraziare il prof. Prenna che con pazienza ci ha seguito per sette incontri. E per ringraziare il prof. Barca e don Francesco per la loro presenza. In modo particolare, voglio ringraziare quei corsisti che sono stati presenti di mese in mese. C’è stata una fedeltà e un’attenzione particolare, si sono preparati di volta in volta e abbiamo raggiunto un buon obiettivo di formazione e di riflessione. Allora grazie anche a voi per essere stati qui. Buona serata e a presto.